Presentazione della tavola rotonda che ha avuto luogo venerdì 24 febbraio 2017 presso l’Istituto freudiano per la clinica, la terapia e la scienza, in occasione della presentazione del libro di Matteo Bonazzi e Daniele Tonazzo, « Lacan e l’estetica », Mimesis edizioni.
Il
libro di Matteo Bonazzi e di Daniele Tonazzo di cui parliamo questa
sera ha come titolo “Lacan e l’estetica”. È un testo nel quale, per via
del titolo, ci si aspetterebbe di trovare discorsi sull’estetica nel
senso in cui la si intende abitualmente: una teoria dell’arte,
riflessioni sul bello, considerazioni sula sublimazione. Ci si incontra
invece con qualcosa di completamente differente, anche se uno dei lemmi
che compongono il volume è effettivamente dedicato al bello. Gli autori
vanno infatti in cerca di qualcosa di diverso, esplorando le due
dimensioni che abbiamo messo nel titolo del dibattito di questa sera: il
dire e il sentire, cioè il linguaggio, per un verso, e per un altro
verso una dimensione che invece sfugge alla presa linguistica, che non è
propriamente afferrabile dal linguaggio e che si può riconoscere come
collegata alla nozione di godimento che Lacan presenta nel suo ultimo
insegnamento.
libro di Matteo Bonazzi e di Daniele Tonazzo di cui parliamo questa
sera ha come titolo “Lacan e l’estetica”. È un testo nel quale, per via
del titolo, ci si aspetterebbe di trovare discorsi sull’estetica nel
senso in cui la si intende abitualmente: una teoria dell’arte,
riflessioni sul bello, considerazioni sula sublimazione. Ci si incontra
invece con qualcosa di completamente differente, anche se uno dei lemmi
che compongono il volume è effettivamente dedicato al bello. Gli autori
vanno infatti in cerca di qualcosa di diverso, esplorando le due
dimensioni che abbiamo messo nel titolo del dibattito di questa sera: il
dire e il sentire, cioè il linguaggio, per un verso, e per un altro
verso una dimensione che invece sfugge alla presa linguistica, che non è
propriamente afferrabile dal linguaggio e che si può riconoscere come
collegata alla nozione di godimento che Lacan presenta nel suo ultimo
insegnamento.
Dire
e sentire sono due coordinate che si possono interpretare in modi
differenti. Un modo potrebbe essere quello che va nel senso di
sottolineare la divergenza tra dire e sentire, dove il primo si
riferisce al primo insegnamento di Lacan, più legato al linguaggio, più
incentrato sui temi linguistici, e il secondo invece è più incentrato
sull’ultimo insegnamento, dove troviamo una valorizzazione del
godimento. Non è però la via scelta dagli autori, che propongono
piuttosto un intreccio, un’esplorazione dell’intersecarsi di queste due
dimensioni, soprattutto nell’aspetto in cui il dire si deposita nella
scrittura e diventa lettera che si scrive sul corpo. Questa esplorazione
del dire e del sentire implica il fatto di tener conto del corpo,
perché rivolgersi al sentire significa mettere in gioco il corpo
attraversato da forze che lo stimolano, lo sollecitano, lo eccitano.
e sentire sono due coordinate che si possono interpretare in modi
differenti. Un modo potrebbe essere quello che va nel senso di
sottolineare la divergenza tra dire e sentire, dove il primo si
riferisce al primo insegnamento di Lacan, più legato al linguaggio, più
incentrato sui temi linguistici, e il secondo invece è più incentrato
sull’ultimo insegnamento, dove troviamo una valorizzazione del
godimento. Non è però la via scelta dagli autori, che propongono
piuttosto un intreccio, un’esplorazione dell’intersecarsi di queste due
dimensioni, soprattutto nell’aspetto in cui il dire si deposita nella
scrittura e diventa lettera che si scrive sul corpo. Questa esplorazione
del dire e del sentire implica il fatto di tener conto del corpo,
perché rivolgersi al sentire significa mettere in gioco il corpo
attraversato da forze che lo stimolano, lo sollecitano, lo eccitano.
Per
quanto il libro sia piuttosto teorico e sia incentrato su commenti di
temi di Lacan presenti nelle diverse fasi del suo insegnamento, implica
tuttavia un risvolto clinico, chiama in causa una clinica designabile
sotto il termine di “inconscio estetico”, espressione che gli autori
propongono in qualcuno dei lemmi. C’è da una parte quello che potremmo
chiamare l’inconscio del logico puro, l’inconscio del Lacan classico,
del periodo degli anni Cinquanta, strutturalista, e dall’altra quello
che gli autori chiamano l’inconscio estetico, cioè l’inconscio, in un
certo senso, sentito. Con questo si tocca un aspetto che è importante
valorizzare, perché nella storia della psicoanalisi la psicologia
dell’Io, per esempio, è andata in crisi come clinica proprio perché ha
abbracciato una lettura cognitiva dell’inconscio, ha aderito all’idea
che la rivelazione di senso, l’insight, come lo chiamano gli
americani, è qualcosa in grado di mettere in moto automaticamente dei
processi di pacificazione dei conflitti, di risoluzione delle tematiche
nevrotiche. Gli autori della psicologia dell’Io hanno infatti
trascurato, o quanto meno trattato in modo subordinato ai processi
cognitivi, tutto quello che riguarda l’aspetto pulsionale, il sentire,
l’idea che il corpo sia attraversato da forze che si fanno sentire e che
fanno sentire. Il termine “forza” nel nostro campo, nella psicoanalisi,
ha un nome, che è quello di “pulsione”. È il corpo pulsionale che è in
gioco, è il corpo attraversato dalle forze pulsionali.
Alla luce di
questo possiamo desumere, dall’interessante lavoro che propongono
Bonazzi e Tonazzo, un’altra chiave di comprensione di come funziona il
lavoro in psicoanalisi, evidenziando un’interpretazione che non parla
solo sul piano linguistico, sul piano cognitivo, sul piano del senso, e
fa invece sentire quel che tocca il corpo, che mette in gioco le forze
che attraversano il corpo. Si tratta di uscire dallo schema della
rappresentazione e del senso per vedere cosa si può fare con le parole
di diverso dalla comunicazione che presuppone una relazione con l’Io,
che ha come interlocutore l’Io, armato di tutte le sue funzioni critiche
e difensive.
La questione è dunque a chi e a cosa ci si rivolge con
le parole, e cosa con queste si può fare. Il problema può apparire
chiaro in alcuni esempi interessanti considerati anche fuori dal campo
psicoanalitico.
Prendiamo il caso delle sigarette. Il fumo fa male e
lo si vuole combattere. Si pensa allora di trasmettere un messaggio
negativo, con il quale contrastare il vizio in chi lo ha contratto. Per
scoraggiare il fumatore le sigarette portano diciture terribilmente
minacciose: “il fumo uccide”, “fa venire il cancro”, “rende impotenti” –
questo funziona solo per il pubblico maschile, ma ce n’è una versione
che investe anche quello femminile: “il fumo danneggia la tua
fertilità”. C’è di che spaventarsi, ma sappiamo che queste modalità di
informazione fondate sulla minaccia non frenano gran che i fumatori, in
primo luogo perché sono generiche, e uno sente che magari è vero che il
fumo fa sì male, ma fa male agli altri, la minaccia non riguarda lui.
In secondo luogo questi messaggi si rivolgono all’intelletto, parlano al
cervello, e trovano tutte le difese ben piazzate, vengono quindi
rifiutati con ironia o semplicemente non ascoltati. È strano come i
pubblicitari che hanno studiato queste campagne, che dovrebbero avere
una certa esperienza, riescano a trovare soltanto vie così poco efficaci
per trasmettere il loro messaggio.
Nella tradizione pubblicitaria
c’è stato chi ha trovato modi di comunicazione senz’altro più incisivi.
Edward Bernays, il nipote di Freud, che è l’inventore delle pubbliche
relazioni e della propaganda, negli anni Venti aveva realizzato una
campagna non per far smettere di fumare, ma per fare fumare le donne. A
quel tempo in America era considerato tabù che una donna fumasse per
strada, era scandaloso, e questo dimezzava i profitti potenziali delle
compagnie produttrici di tabacco e di sigarette che, per modificare
questa situazione, decisero di interpellare come consulente Bernays. Gli
chiesero così di pensare una campagna per promuovere il fumo nelle
donne, e Bernays ebbe un’idea formidabile, che è diventata un’esempio
topico nella storia della pubblicità. Assoldò una ventina di suffragette
con l’idea di farle passeggiare per la quinta Avenue a New York,
preparando l’evento e chiamando la stampa e i fotografi. A un suo
segnale le donne, vestite in modo da non passare inosservate, avrebbero
tirato fuori dalla gonna delle sigarette e, con un gesto teatrale, le
avrebbero accese e si sarebbero messe ostentatamente a fumare. Bernays
aveva già predisposto tutto perché la scena finisse con gran clamore sui
giornali, e in effetti il giorno dopo l’evento fu presentato con il
titolo “Fiaccole per la libertà”.
Capite che questo non è un
messaggio che parla al cervello, come le minacce con le quali si spera
di indurre a non fumare. È qualcosa che parla alle corde più profonde
dell’essere, che fa sensazione. Innanzi tutto fa sentire le donne più
libere se fumano, perché l’immagine delle “fiaccole della libertà” si
associa all’idea della Statua della Libertà, e con questo a tutti i miti
fondativi del Paese, ma soprattutto fa leva su una trasgressione, sulla
rottura di un vincolo, su un desiderio, e non su un dovere, come
potrebbe essere quello di preservare la propria salute. Una donna non è
più libera perché fuma, ma è più libera perché fa un gesto che prima non
le era consentito. Che questo gesto sia quello di fumare è il
capolavoro di Bernays. Alcuni anni dopo Bernays si pentì molto della sua
campagna e del grande successo che aveva avuto. I profitti dei
produttori di sigarette e delle compagnie del tabacco, infatti, si
impennarono, ma evidentemente a scapito della salute delle donne.
Ora
sembra che i pubblicitari incaricati di studiare le campagne per far
diminuire il consumo di fumo abbiano capito l’idea che per muovere
qualcosa nella comunicazione bisogna toccare le emozioni più che
l’intelletto. In Australia infatti, per scoraggiare il consumo di
sigarette, hanno cominciato a obbligare i produttori a confezionare i
pacchetti in un colore che, dopo studi approfonditi, è risultato essere
considerato come il più brutto del mondo. È una specie di verde-marrone
che pare trasmetta un’idea di sporco, di desolazione e di morte. Sembra
che questo effettivamente abbia cominciato a far cadere le vendite di
sigarette. È un esperimento, e speriamo che funzioni.
Volevo solo
proporvi un esempio di cosa si può prendere come interlocutore in un
messaggio. Per la pubblicità delle sigarette si tratta di mirare alla
sfera emotiva piuttosto che a quella intellettiva. La psicologia
dell’Io, nella sua modalità clinica, faceva un errore analogo ai
promotori delle campagne basate sulla minaccia che il fumo uccide.
Prendeva come interlocutore l’Io, e considerava di doverne vincere le
resistenze. Lacan, critico della psicologia dell’Io, prendeva come
interlocutore l’inconscio e direi che, nella lettura data Bonazzi e
Tonazzo, si tratta di prendere come interlocutore l’inconscio estetico
anziché quello del logico puro, perché solo da lì si risveglia la
sensazione, solo da lì si fa “sentire”, prima ancora che capire,
l’interpretazione, e si può costruire una clinica che non sia debitrice
del platonismo, e prigioniera di una concezione della diagnosi,
pienamente sviluppata dal DSM, che funziona solo facendo girare degli
algoritmi.