Un corpo che parla, l’infinito del verbo pone il soggetto in un nesso con il corpo e con la parola assai diverso da come poteva apparire in un Lacan preoccupato di far avvenire il soggetto là dove era la pulsione, è una soggettivazione di ordine completamente nuovo che si fa strada.
Dalcorpo organizzato in frammenti in cui parla un soggetto, nella filigrana di un’organizzazione significante che gli scava il posto, passiamo nell’ultimo Lacan ad un corpo non più vettorializzato dall’aggancio ad un discorso, sganciato dalla struttura pre-tagliata dall’S1 del Nome del Padre che lo abita. Vedi l’esempio princeps dell’isteria.
Il taglio che vi opera ora è quello della forbice, che agisce su una sostanza, più che su una struttura pre-tagliata, appunto. Non vi opera più l’Altro simbolico, come dice Lacan nel Seminario XVII.
Ilrovescio della psicoanalisi , con il suo indovinello retorico (p.77): “Che cos’è che ha un corpo e che non esiste? Risposta – il grande Altro”. L’Altro che non esiste pone con maggior forza l’esistenza del corpo, il nuovo Altro per il soggetto. Mai come ora lo ha senza esserlo. Ma questa nuova alterità del corpo non è, come la prima, funzionale all’”avvenirvi” di un soggetto. Anche se nel corpo che parla c’è articolazione di parola, vi si concatena un sapere prodotto da una lalingua che ne taglia gli organi, che li vettorializza in una corporeizzazione, che è, soprattutto, marchiata dall’azione di sforbiciamento, dalla ferita da taglio operata da un linguaggio requisito dal godimento. Chi opera sono le forbici significanti di cui Lacan parla in Televisione. Sostanza godente, dunque, sforbiciata da parole che ne assumono la portata di traumatismo. Il corpo che parla, ostaggio di un godimento impresso su di esso dai marchi letterali che costituiscono l’unità ultima del lavoro delle forbici significanti, è fatto per eventi di corpo, appunto, non più per eventi di discorso.
Il soggetto ne è esiliato, non vi avviene, ma ne raccoglie il traumatismo spostandosi dal parlare al dire, in un certo senso. Non si tratta più per il soggetto di avvenire là dove era la pulsione, ma di sforzarsi di far passare un traumatismo ad un dire. “Che si dica resta dimenticato dietro ciò che si dice in ciò che si intende”, scrive Lacan all’inizio de Lo Stordito.
Nessuna più sostanza, qui, ma la modalità in cui il congiuntivo testimonia del soggetto, come aggiunge dopo, almeno nella mia lettura. Quello che mi sembra delinearsi è dunque una ripartizione di registri, nuova, tra parola zavorrata di godimento, sempre traumatico, e un dire in cui fa capolino l’istantaneità del soggetto, nella sua puntiforme insostanzialità.
Se il corpo è requisito dal godimento e non più metaforizzabile dalla significazione di desiderio, il soggetto non può che sopportarne gli effetti di percussione. Ne consegue che il campo pulsionale alloggia la lingua, è la lingua che vi si localizza. Il soggetto è esiliato da tale traumatismo, come dice Lacan, felice, felicemente esiliato in un dire che si supporta su un altro tipo di scrittura rispetto a quella operata dai tagli del memoriale di un godimento requisito e perduto nella lingua.
Il soggetto nel suo esilio felice non si dà pena di avvenire, ma di darsi nella forma “modale”, come dice Lacan, del congiuntivo, “che”. E’ un modo, semmai, di nominare la sostanza godente, non più di avvenire dove “qualcosa” era. Nel “che si dica” risuona l’eco di un godimento ridotto a modalità del dire, dimenticato dietro il detto ma residuale in ciò che si intende. Tratto di stile nel saper dire, in un certo senso.
Dall’estrazionedi una parola sostanziata dal godimento traumatizzante nel corpo, a un dire che punta ad un linguaggio dove faccia segno un soggetto.
Può questo costituire uno dei modi di pensare il sinthomo ?