/Maurizio Mazzotti/
Nel suo intervento, all’VIII Congresso AMP, a Buenos Aires, nell’aprile
2012, Sonia Chiriaco, parla di quello che lei definisce « l’equivoco
radicale » della lingua. Ciò che dà forza a questa espressione, nella
testimonianza della collega francese, è che essa si delinea attorno al
momento della fine dell’analisi e della ricerca della parola della fine.
Laddove, al posto di questa parola, e per Sonia Chiriaco si è trattato
di un sogno,brulicavano gli equivoci di un significante, « ormeaux »
(conchiglie di mare) , cioè « hors mots » (fuori parole), « or mot «
(parola d’oro) , « mort » (morte)…..
Laddove questa parola manca, lì, ed è questo il passo di Sonia Chiriaco,
si segna l’incontro con quello che essa chiama l’equivoco radicale della
lingua: per cui è impossibile estrarre dalla lingua la parola, o la
formula, che designerebbe /tutto/ il godimento di un parlessere,
scrivendosi in un reale posto del tutto al di fuori di quello, equivoco,
della lingua. Quel che apporta questa testimonianza è di mettere
l’accento non solo sulla mancanza dell’ultima parola dell’Altro, uno dei
modi di dire la rimozione originaria di Freud o l’Altro in quanto
radicalmente barrato di Lacan, ma di situarne un reale, un reale proprio
a /lalingua/ che si parla. Un reale inestirpabile dell’equivoco
radicale, che è congiuntura tra la lingua e il corpo e di cui le
testimonianze di passe, in alcuni casi, focalizzano una riduzione a
quella letteralità di scrittura possibile al nostro livello di
parlesseri, in cui arriviamo alla fermata che viene subito prima
dell’ultima, quella che non sarebbe più del /semblant/, quella di un
reale che pulserebbe fuori dal collegamento al significante della
lingua. Nella testimonianza di Sonia Chiriaco invece troviamo il reale
degli equivoci che si sono depositati nella lingua da cui si è parlati.
Senza la parola della fine ma non senza l’evidenza dell’incidenza
contingente del significante nella sua portata di traumatismo.
In altri contesti questo reale della lingua divampa negli equivoci che
non cessano di sgorgare nella polifonia della camera degli echi che
attraversano un corpo al punto da doversi tappare le orecchie, come ci
insegna l’autismo. Oppure da doverne attenuare l’impatto con la
scrittura, che, nel caso di genio, quello di Joyce, diventa scrittura de
/lelingue /(Philippe Sollers /docet/)/, /paradossale barriera al
traumatismo dove non è più possibile definire una lingua, distinguendola
sulla base delle sue strutture fonematiche. Paradosso che, in questo
caso, nemmeno il riferimento all’ indoeuropeo potrà stemperare, restando
vano il suo tentativo,da finzione scientifica, di fornirci la matrice
che possa assorbire del tutto il resto dell' »equivoco radicale » della
lingua nel suo legame reale ad un corpo.