Più raro che unico e sia per struttura che per anomalia (epocale)
Michele Bianchi
Perché il vettore che attraversa i concetti presenti nell’insegnamento di Lacan si muoverebbe perlopiù dal molteplice all’uno, dai fantasmi al fantasma, dalle identificazioni all’identificazione, dai sintomi al sinthomo, dai godimenti al godimento? È la domanda posta dal nostro presidente Paola Francesconi in apertura del dibattito del 10° convegno della SLP, mentre aggiungeva subito (parafraso un poco): dal plurale al singolare il processo non è spontaneo, non lo osserviamo come ci illudiamo di osservare – noi presunti esseri fatti di ‘non’ natura – la natura, nello specchio del nostro pensiero, nello specchio del nostro linguaggio concettuale. Chiudendo infine con una proposta che vorrei provare qui a riscrivere: se alla fine di una cura psicoanalitica si sarà potuto dire che ogni identificazione nascondeva un godimento, si dovrà però anche dire che l’approdo dell’identificazione – tale è il segreto della disidentificazione – è ad un godimento residuo fissato al corpo (i resti sintomatici, non negativizzabili, ci saranno sempre): “propongo, su questo – così concludeva il Presidente -, di distinguere l’inguaribile o l’incurabile freudiano dall’intrattabile lacaniano”.
Intanto si tratterebbe di scorgere, e si tratterebbe di farlo nell’esperienza stessa della psicoanalisi, questo movimento anti-‘naturale’ verso ciò che si svuota. Non il movimento verso il concetto, la sintesi di ciò che si era presentato prima, nell’esperienza, come il suo passato. Si tratta del movimento anti-intuitivo di ciò che si decompleta. Ma non basta dire questo, perché si tratterebbe di scorgere quel movimento sia per struttura che per anomalia epocale diceva ancora Paola Francesconi, ogni volta sia per struttura che per anomalia proverei qui ad aggiungere e a proporvi, carissimi colleghi. Mi sembra inoltre di avere un unico modo a disposizione per cogliere ciò senza cadere nei due errori del caso, l’errore storicista, l’errore strutturalista: prendere sul serio questa storia dell’‘uno’. Ora a tal serietà sarei spinto mimeticamente dall’ostinazione comunitaria della Scuola a stringer se stessa attorno alla pratica della ‘passe’ come al suo unico alveo desiderabile. Non vedo cos’altro potrebbe portarmici! Perché non credere infatti all’uno della sintesi? Se si dovesse avere quest’ultimo come bussola dell’esperienza non ci sarebbe affatto bisogno di pensare i concetti presenti nell’insegnamento di Lacan come mossi da un’ostinazione che ci sembra a volte di fare nostra, di far rivivere, in certi momenti di Scuola che lasciano percepire esattamente come la Scuola sia Una nel senso del discorso della psicoanalisi e non un Istituto che inevitabilmente ha la sua finalità altrove, la sua deontologia, la sua prassi trasformativa regolata da leggi, i suoi capi ecc. E non ci sarebbe allora nemmeno ‘esperienza’, ma solo ‘terapia’, ‘cura’. Non ci potrebbe essere ‘conclusione della cura’, ma solo la cura, come sospesa, senza la sua conclusione, senza cioè il suo vero inizio. Solo – invece – l’illusione di un inizio, e l’eventuale finzione di una fine. Del resto è a quei ‘momenti’ di opacità comunitaria colmi di nulla che chiamiamo dopo Lacan ‘passe’ che dobbiamo la eventuale capacità di rendere inferiore la clinica (terapeutica) dello sguardo rispetto ad una clinica (logica) dell’ascolto, una capacità che facciamo nostra anche perché ci si accerta come qualcosa di raro. Nessun luccichio di unicità, nessun alone agalmatico, nessuna auratizzazione del ‘passaggio’ dallo sguardo all’ascolto, dal terapeutico al logico, dentro la geometria lacaniana della Scuola Una. Da un uso del significante semantico ad un uso del significante logico si passa senza concetto, ma che si passi non lo si sa, lo si pratica – quindi lo si accerta – ma dove? Direi così: solo nell’ombra e grazie all’ombra di quegli scavi testimoniali che corrispondono al desiderio dell’analista, e precisamente al desiderio dell’analista messo in pratica dentro l’alveo prodotto dalla sua rotazione come discorso, come discorso sui generis ha avvertito Lacan, proprio perché l’unico ogni volta differente e ogni volta esibito solo ed esclusivamente nella festa della Scuola, per quello o per quell’altro, per ‘questo’ Uno.
Se da un lato non si potrà che essere drastici ed arrivare a dire che le terapie cognitivo-comportamentali non sono veramente terapie, ma pratiche di condizionamento, da un altro lato per mantenere questo livello di rigore e non tornare a idealizzare la cura per poi dire che le prime – le terapie cognitivo-comportamentali – non sono ‘vera’ cura, occorrerà star fermi su un altro punto, che ci deriva dall’aver ripensato i concetti della psicoanalisi a partire dalla fine dell’analisi, come ‘scuola’ costruita attorno all’esperienza di questa fine. Si tratta del fatto essenziale, del fatto che – precisamente – niente ci dice che l’alternativa al terapeutico prevalga sul terapeutico. Se questa alternativa al ‘terapeutico’ la chiamiamo – e in genere la chiamiamo così – ‘logico’, noi non abbiamo il concetto di un tale predominio, quando ne abbiamo invece solo l’esperienza nella forma della rarità. E infatti questa esperienza cade insieme alla sua testimonianza, cioè non è un semplice vissuto, una intuizione replicabile ad libitum, ma una pratica, una pratica di Scuola. Questa pratica è un atto, cioè non è un oggetto di previsione, ma più un oggetto di attesa, o, se si vuole, di immaginazione pura. Non potrebbe essere diversamente, pena tornare al dominio del ‘trattabile’, alla legge del ‘terapeutico’, che ci condannerebbe a condannare il non terapeutico a partire da un punto di ideale, facilmente criticabile dagli stessi sostenitori del modello, per esempio, attaccamentista, della psicoterapia contemporanea, et pour cause. È quello che succede facilmente agli psicoanalisti che provano a criticare le psicoterapie partendo da un punto di ideale, da un sapere. Noi non sappiamo né dove né quando passiamo dalla cura alla logica della cura, e non lo sappiamo non perché il campo del ‘sapere una cosa del genere’ ci sia precluso in natura. Il motivo deve essere un altro. Non lo sappiamo quando è operativo il desiderio dello psicoanalista. Ecco quando non lo sappiamo. Lì, però, noi non vogliamo saperlo. Potremmo giungervi, ma non lo facciamo, e questo – che noi non lo facciamo – lo abbiamo saputo solo nella Scuola, attraverso di essa, grazie ad essa, eventualmente, qualche volta, ed ogni volta è così. Altrimenti lo sappiamo, ed è così – quando lo sappiamo – che usciamo fuori dalla psicoanalisi. Lo sappiamo come aggregato di professionisti, non lo sappiamo come Scuola di psicoanalisi, cioè come Scuola delle esperienze più rare che uniche, ovvero come storia dell’‘uno’ che si racconta in questa Scuola di psicoanalisti ai quali si fa festa. Ecco il carattere asociale della psicoanalisi, che non è anti-società, ma semmai privata di società, che non è contro ogni aggregato, ma semplicemente senza aggregato, senza gruppo, senza identificazioni. Se si trattasse solo di questo, se si trattasse solo di ‘anti’ la sua automatica ricomprensione nel comparto dei ‘ribelli’ renderebbe amabile nei luoghi ufficiali delle istituzioni pubbliche una clinica dell’ascolto agalmatizzata a clinica ‘superiore’, o ‘psicoanalitica’ appunto, laddove invece non si tratta solo di questo, ed è perciò che noi non possiamo sapere da soli – senza la Scuola – se si sia sospesa la clinica dello sguardo nell’atteggiamento clinico cui abbiamo dato corso con la nostra iniziativa pubblica, professionale, ecc. Da questo punto di vista la Scuola non mira a niente, semplicemente è fatta di questi momenti più rari che unici, più rari che originali, dove qualcuno ha persuaso un altro che… ‘non’. Siamo nella logica, nella pura logica della cura quando facciamo l’esperienza di questa cura come di un elemento intriso di quella temporalità per cui l’inizio – l’inizio della cura – si deduce dalla fine, e la fine, la conclusione della cura, la conosciamo solo come Scuola, non come pensiero.
Conoscere come ‘Uno’, sembra impossibile. Il fatto più raro che unico è che lo è, impossibile (senza però che questo appaia o sembri ad un ‘soggetto’). Non si tratta di pensare la clinica dell’ascolto attraverso al figura semantica della negazione, come negazione della clinica dello sguardo semanticamente concepita (l’in-curabile di un Freud che non si era spinto ad una teoria completa della Scuola: grande problema che è passato al kleinismo tutto Melanie Klein compresa, che di Freud aveva capito tutto e bene tranne ‘una’ cosa, quella essenziale), laddove invece si tratta di pensare la clinica dell’ascolto attraverso una pratica della trattamento terapeutico che è immediatamente pratica della sua fine, cioè del suo inizio semplicemente logico, posto nel cuore stesso del ‘trattabile’ (l’in-trattabile nella teoria di Lacan). ‘Immediatamente’ qui è da cogliersi – ve lo propongo – non come il lato istantaneo che sfuggirebbe al linguaggio delle mediazioni concettuali nel senso di uno specchio del pensiero a sua volta specchio della natura, ma come una forma di comportamento non priva però del suo puro inizio logico. Da questo punto di vista le terapie cognitivo-comportamentali non possono finire perché non iniziano mai. Solo da questo punto di vista si comprende perché dopo Freud, anche Lacan amava ricordare quel passo del Faust di Goethe che recita: ‘Im Amfang war die Tat’.