Il “guardaroba” di Bauman e di Lacan
Nicola Purgato
Per Freud è un dato di fatto: le identificazioni procedono sempre dall’altro, nel senso che il soggetto non può che prelevarle dal campo dell’Altro. Nel secolo scorso questo Altro si è ammalato e, pur essendo intervenute cure e puntellamenti vari, ha finito per non essere più quello che per centinaia d’anni era stato, ossia «la struttura tradizionale dell’esperienza umana» [1] basata sulla fede nel Nome-del-Padre.
I fattori principali di questa crisi – come sappiamo – sono stati il progresso di una concezione etica, economica e politica della libertà che tendeva a fare del soggetto il supporto concreto di una autonomia invocata tanto nell’ordine individuale quanto in quello sociale ed il progresso della scienza, sempre più autonoma nella sua investigazione, che affermava la necessità di una scrittura matematica-formale distaccata da ogni possibile senso esterno.
Zygmunt Bauman da tempo descrive la situazione attuale come “liquida”, aggettivo che si impegna a declinare nei più diversi ambiti. La modernità liquida «nasce dalla radicale opera di abbattimento di tutti gli impedimenti e ostacoli a torto o ragione sospettati di limitare la libertà individuale di scegliere e agire. […] Di conseguenza, il nostro è un tipo di modernità individualizzato, privatizzato, in cui l’onere di tesserne l’ordito e la responsabilità dei fallimenti ricadono principalmente sulle spalle dell’individuo. Sono i modelli di dipendenza ed interazione per i quali è oggi scoccata l’ora di essere liquefatti. Oggi tali modelli sono malleabili in una misura mai sperimentata o finanche immaginata dalle generazioni passate, ma al pari di tutti i fluidi non conservano mai a lungo la propria forma. E’ molto più facile plasmarli che mantenerne la foggia» [2].
La difficoltà attuale quindi starebbe nel trovarsi dentro ad una crisi in cui niente più sembra suggerire come trovare la soluzione o, perlomeno, che non la si può più trovare nei termini in cui so è stati abituati a formularla.
Se andiamo con lo sguardo un attimo indietro, vediamo che l’avvento dell’epoca moderna ha significato, tra altre cose, l’esercizio della febbrile costruzione dello Stato-nazione che antepose decisamente il ‘suolo’ al ‘sangue’ allorché gettò le fondamenta del nuovo ordine codificato e statuì diritti e doveri dei cittadini. La nozione di cittadinanza andò così di pari passo con quella di insediamento. Lo Stato moderno, messo di fronte all’esigenza di creare un ordine che non veniva più automaticamente rigenerato all’interno delle ben radicate ‘società di familiarità reciproca’, ha posto la questione dell’identità a fondamento delle sue nuove e inusuali rivendicazioni di legittimità. Lo Stato-nazione era uno stato che faceva della «natività della nascita» il fondamento della propria sovranità, con l’implicita finzione che la nascita dovesse diventare immediatamente nazione e che tra i due momenti non potesse esserci alcuno scarto. «Quindi l’idea di identità, e di identità nazionale in particolare, non è un parto naturale dell’esperienza umana, non emerge da questa esperienza come un lapalissiano ‘fatto concreto’ ma è una finzione» [3].
Anche per la psicoanalisi la nozione di finzione, inganno, miraggio ben si presta a descrivere il gioco delle identificazioni che concorrono a costituire l’io che Lacan definisce senza mezzi termini «doppiamente illusorio» [4] e «sintomo umano per eccellenza» [5].
Per Bauman è la perdita di identità che caratterizza la “modernità liquida” e ciò porterebbe alla ricerca, spesso spasmodica, di identificazioni prêt-à-porter o fai-da-te «Se cento o più anni fa era il principio cuius regio, eius natio a dar forma al problema dell’identità, oggi al contrario i problemi di identità nascono dall’abbandono di quel principio o dall’esitazione con cui è stato applicato e dall’inefficacia con cui lo si è sostenuto, quando si è tentati di farlo. Dal momento che l’identità perde i suoi ancoraggi sociali che la fanno apparire ‘naturale’, predeterminata e non negoziabile, l’identificazione diventa sempre più importante per quegli individui che cercano disperatamente un ‘noi’ di cui entrare a far parte. […] Le affiliazioni sociali, più o meno ereditate, che vengono tradizionalmente attribuite agli individui come definizione di identità stanno ora diventando sempre meno importanti, diluite, alterate, nei paesi tecnologicamente ed economicamente più avanzati. Al tempo stesso si assiste a un forte desiderio e a tentativi di trovare o fondare nuovi gruppi che possano dare ai membri un senso di appartenenza e facilitare la fabbricazione di un’identità» [6].
Di fronte a questo allentamento del potere dell’identità l’individuo moderno è – secondo Bauman – spinto a ‘identificarsi con…’, a vestire delle identificazioni preconfezionate, tanto che egli stesso legge la contemporaneità come una crescente domanda di «comunità guardaroba»[7].
E’ interessante notare come Lacan avesse usato una espressione analoga per parlare dell’identità nel suo intervento all’Università Cattolica di Lovanio nel 1960: «Come Freud ci insegna, l’io è fatto di identificazioni sovrapposte come bucce, è una specie di guardaroba i cui pezzi portano il marchio del prodotto confezionato, anche se il loro assemblaggio è spesso bizzarro. A partire dalle identificazioni con le sue forme immaginarie l’uomo crede di riconoscere il principio della propria unità sotto le specie di una padronanza di sé da cui è necessariamente ingannato – che essa sia o no illusoria – perché quell’immagine di se stesso non lo contiene per niente» [8]. Nel Seminario II, di qualche anno prima, aveva sostenuto che l’io «è come la sovrapposizione di diversi mantelli raccattati tra ciò che chiamerei le cianfrusaglie del proprio magazzino» [9].
Sta qui la differenza tra il guardaroba di Bauman e quello di Lacan. Il primo ci racconta sapientemente come muta il mercato delle insegne identificatorie;l’altro ci spinge a guardare oltre per puntare a quanto organizza questo lavoro di bricolage che è l’identità. «La nostra soggettività la costruiamo interamente nella pluralità, nel pluralismo di questi livelli di identificazione che chiameremo ideale dell’io e io ideale, il quale sarà chiamato, così identificato, io desiderante. Ma bisogna tuttavia sapere dove, in questa, articolazione, si situa e funziona l’oggetto parziale» [10].
E’ questa la vera posta in gioco messa in evidenza da Lacan. Non è un caso se l’analisi porta ad una operazione di riduzione significante, in quanto la parola tende di suo a proliferare, a moltiplicarsi, al blablabla, mentre il reale è ciò che torna sempre allo stesso posto. «E’ vero che ciascuno è segnato da una formula simbolica, ma c’è di più. […] Quando ci domandiamo perché tale termine x, tale significante, tale espressione, tale parola assuma tanto valore per il soggetto, si tratta di altro. Perché per un soggetto il suo nome proprio ha valore fondamentale nella sua esistenza e per un altro non ha alcuna importanza? Quando ci domandiamo perché tale termine ha valore nello psichismo di un soggetto, ci rifacciamo sempre alla contingenza, alla contingenza di una storia particolare. […] E’ vero che l’essere umano è programmato per svilupparsi in un certo modo sul piano fisico, però per quanto concerne il godimento non c’è programmazione. Esistono cose che sembrano programmate, possiamo parlare del risveglio sessuale nell’adolescenza, ma per ciò che costituisce veramente il godimento particolare di ciascuno si tratta della dimensione della contingenza» [11].
Ancorati nel discorso religioso, nell’autorità della tradizione o in potenti ideologie, gli ideali del passato attingevano il loro fascino in una forte adesione collettiva. Non è più così. La scienza, il capitalismo e la psicoanalisi li hanno ridotti male. Gli ideali antichi sussistono, ma minati, mentre se ne erigono di nuovi, suscitati da un più-di-godere comune. Il soggetto moderno non è confrontato con un’assenza di ideale, ma con la loro esplosione, con la loro moltiplicazione, da cui deriva una conseguenza importante: essi s’impongono meno, con meno autorevolezza e con minor efficacia. Per questo motivo il modo di godimento del soggetto contemporaneo si caratterizza, non tanto in un superamento dei limiti, ma, secondo Lacan, per lo smarrimento e la precarietà. «Smarrito com’è il nostro godimento. E vi si aggiunge la precarietà della nostra moda, che ormai non ha luogo che nel plus-godere» [12].
L’epoca attuale, in quanto epoca dell’erranza e della precarietà, pone in primo piano il reale dal momento che «l’inesistenza dell’Altro non è antonimica al reale. Al contrario, le è correlata» [13]. Si tratta dell’egemonia della globalizzazione che trascina, attraversa e liquefà le civiltà. «L’inesistenza dell’Altro apre veramente a ciò che chiamiamo l’epoca lacaniana della psicoanalisi. E quest’epoca è la nostra. Per dirlo in altro modo, è la psicoanalisi dell’epoca dell’erranza, la psicoanalisi dell’epoca dei non-dupes […] che sanno che l’Altro non è che un sembiante [14] .
Nel suo Rapporto di Roma Lacan aveva detto «La psicoanalisi ha giocato un ruolo nella direzione della soggettività moderna, e non riuscirebbe a sostenerlo senza porlo in ordine al movimento che nella scienza lo chiarisce» [15]. Il contesto attuale è mutato, ma si tratta ancora di sapere quale ruolo può giocare la psicoanalisi in ciò che Lacan chiama la ‘direzione della soggettività moderna’. E’ stata una sfida per Lacan, lo è per noi oggi. «In questo paesaggio d’apocalisse – apocalisse confortevole, per un un certo numero in ogni caso – il ruolo che la psicanalisi deve sostenere non soffre d’ambiguità. E’ il richiamo al reale che le ritorna da compiere. E’ ciò che Lacan ha indicato, alla fine. Il privilegio della psicanalisi è il rapporto univoco che ha con il reale» [16].
Reale che – a differenza della molteplicità della identificazioni – «non ha struttura di finzione» [17]. L’auspicio di Lacan, espresso a Milano nel 1972, è di un discorso che «un giorno forse potrà servire a qualcosa, naturalmente se tutta la baracca non va a rotoli prima» [18]. E’ quello che tra un po’, a Bologna, 40 anni dopo, saremo tutti chiamati a far esistere ancora, con lo stesso rischio di ieri che incombe su di noi.
[1] J.-A. Miller, Un grande disordine nel reale, Buenos Aires 2012.
[2] Z. Bauman, Modernità liquida, Laterza, Bari, 2002, p. XIII
[3] Z. Bauman, Intervista sull’identità, Laterza, Bari, 2003, p. 19
[4] J. Lacan, La Logique du fantasme (lezione del 16 novembre 1966).[5] J. Lacan, Il Seminario. Libro I. Gli scritti tecnici di Freud, Torino, Einaudi, 1978, p. 20.[6] Bauman, Intervista sull’identità, p. 25.[7] Bauman, Intervista sull’identità, p. 33[8] J. Lacan, Discorso ai cattolici, in Id., Dei Nomi del Padre, Einaudi, Torino 2006, p. 81.
[9] J. Lacan, Seminario II. L’io nella teoria di Freud, Torino, Einaudi, 2006, p. 179
[10] J. Lacan, Seminario VIII. Il transfert, Torino, Einaudi, 2008, p. 63.
[11] J.-A. Miller, L’osso di una analisi, Franco Angeli, Milano 2001, p. 33-34.[12] J. Lacan, Televisione in Id., Radiofonia, Televisione, Einaudi, Torino 1982, p. 90.[13] Miller, L’Autre n’existe pas, in La Cause freudienne, 1997, 35.p. 6.[14] Miller, L’Autre n’existe pas, p. 5.[15] J. Lacan, Funzione e campo della parola e del linguaggio, in Id., Scritti¸ I, Einaudi, Torino, 1974, p. 277.[16] Miller, L’Autre n’existe pas, p. 8.[17] Miller, L’Autre n’existe pas, p. 8.[18] J. Lacan, Del discorso psicoanalitico, in Lacan in Italia, La Salamandra, Milano, 1978, p. 197
[3] Z. Bauman, Intervista sull’identità, Laterza, Bari, 2003, p. 19
[4] J. Lacan, La Logique du fantasme (lezione del 16 novembre 1966).[5] J. Lacan, Il Seminario. Libro I. Gli scritti tecnici di Freud, Torino, Einaudi, 1978, p. 20.[6] Bauman, Intervista sull’identità, p. 25.[7] Bauman, Intervista sull’identità, p. 33[8] J. Lacan, Discorso ai cattolici, in Id., Dei Nomi del Padre, Einaudi, Torino 2006, p. 81.
[9] J. Lacan, Seminario II. L’io nella teoria di Freud, Torino, Einaudi, 2006, p. 179
[10] J. Lacan, Seminario VIII. Il transfert, Torino, Einaudi, 2008, p. 63.
[11] J.-A. Miller, L’osso di una analisi, Franco Angeli, Milano 2001, p. 33-34.[12] J. Lacan, Televisione in Id., Radiofonia, Televisione, Einaudi, Torino 1982, p. 90.[13] Miller, L’Autre n’existe pas, in La Cause freudienne, 1997, 35.p. 6.[14] Miller, L’Autre n’existe pas, p. 5.[15] J. Lacan, Funzione e campo della parola e del linguaggio, in Id., Scritti¸ I, Einaudi, Torino, 1974, p. 277.[16] Miller, L’Autre n’existe pas, p. 8.[17] Miller, L’Autre n’existe pas, p. 8.[18] J. Lacan, Del discorso psicoanalitico, in Lacan in Italia, La Salamandra, Milano, 1978, p. 197