DALLA NATURA ALLA CULTURA E RITORNO
Amelia Barbui
Propongo questo titolo provocatorio per interrogare, da una parte, l’unicità del godimento, del reale, la singolarità più radicale a ciascuno, a cui fa eco intolleranza e razzismo: l’odio del godimento dell’Altro dentro di sé e l’odio per il proprio godimento, e dall’altra la molteplicità delle identificazioni, una molteplicità culturale che possiamo declinare, pensando a Voltaire, come i frutti variabili, mutevoli, che traggono nutrimento dal terreno della natura.
Titolo provocatorio se si pensa alla messa in atto di una ripetizione in cui si presuppone che ciò che si ripete sia sempre lo stesso, ma non invece se si pensa all’iterazione di una funzione complessa, a cui partecipano elementi eterogenei, di nature diverse, e in cui ciò che resta, dopo aver consumato un po’ di reale nella simbolizzazione, viene ripreso e rimesso all’opera, come nel programma richiesto per la generazione dei frattali, scritture selvagge, chimere che, nonostante la complessità della forma, non dimenticano le condizioni di partenza che li hanno generati.
Apertura verso la molteplicità e, di seguito, crisi dell’unità, dell’identità, ma non dell’uno per uno.
Montaigne ne sapeva qualcosa: “Nel mondo – scrive – non ci sono mai state due opinioni uguali, non più di quanto ci siano mai stati due capelli o due grani identici: la qualità più universale è la diversità”. E ancora ne sapeva quando, interrogandosi sul concetto di barbarie dice: “Noi abbiamo, come unica pietra di paragone della verità e della ragione, sempre e solamente le opinioni e le usanze del paese in cui viviamo … chiamiamo barbarie tutto ciò che non rientra nei nostri costumi abituali” definendo in tal modo, tramite la differenza, la propria identità custodita entro i confini della consuetudine.
Montaigne riteneva che l’apertura verso la molteplicità, l’uscita dai costumi, fosse la via da seguire per aggiungere qualcosa al sapere.
Il rischio, il prezzo da pagare, il premio o l’obiettivo da raggiungere, nel mettere in discussione la propria identità, è, a seconda dei punti di vista, l’irruzione del disordine, dello sconvolgimento. L’uscita dai costumi può portare sia alla follia sia alla saggezza, e le due soluzioni non si escludono: “Da cosa nasce la più sottile follia – si chiede Montaigne – se non dalla più sottile saggezza?”.
Al conoscere come si gode, o meglio “avere almeno un’idea del modo in cui si può godere” come ricorda Miller, dove la conoscenza è temperata in una logica approssimativa, fa eco il conoscere il reale su cui Lacan si era interrogato, nelle ultime lezioni del Seminario Libro II, ponendo la celebre domanda: “Perché i pianeti non parlano?” per distinguere il reale dal simbolico, dagli assiomi che hanno messo a tacere quei corpi celesti su cui si era tanto sognato, ricordando tuttavia che “non si è chiuso il becco all’atomo o all’elettrone” e che il principio di indeterminazione di Heisemberg ne è la prova. “Quando si parla al posto degli elettroni, quando si dice loro di restare lì, di rimanere sempre al medesimo posto, non si sa più dove va a finire ciò che comunemente chiamiamo la loro velocità. Se invece dico loro – va bene, d’accordo, vi spostate continuamente nel medesimo modo -, non si sa più dove sono. Non dico che si resterà sempre in questa posizione eminentemente di presa in giro. Ma fino a nuovo ordine, possiamo dire che gli elementi non rispondono lì dove li si interroga. Più esattamente se li si interroga da qualche parte, è impossibile coglierli nell’insieme”.