Alide Tassinari
Il mondo per l’essere è un prêt-à-porter [1] <#_ftn1> identificatorio. Oggi più che mai. Ad ogni individuo l’Altro che non esiste dà valenza di identità, quindi di identificazione, cercando con ciò di saturare la disarmonia velata con la spinta a godere e col diritto alla felicità. Disarmonia dalla quale ognuno è abitato che si evidenza a livello politico, sociale, economico. Così nel disagio della civiltà contemporanea, sempre più caratterizzata dallo scientismo, l’offerta identificatoria è costruita su un tratto fenomenologico, inventando nuovi termini e nuove attribuzioni. Un esempio è l’ambito delle tossicodipendenze: per differenziare dal “semplice” uso di una sostanza un tossicodipendente da un altro, viene utilizzato il termine di poliassuntore, costruendo così una nuova categoria; nei gironi della salute mentale, si alternano etichette a etichette, mania classificatoria mai esaustiva, desunte prima dal sintomo descritto e poi riconosciuto, tramite questionari, dalla psichiatria ufficiale; sul versante medico, quello strettamente organicistico è la carenza a livello genetico e o a livello neurologico che viene cercata, identificata e offerta come ciò che è, per il momento, irriducibile ma spesso farmacologicamente trattabile. La psicologia dal canto suo trova sempre nuove attribuzioni per una “diagnosi psicologica” che “si propone di giungere ad una comprensione psicologica con l’utilizzo di test che permettono la valutazione di funzioni o di caratteristiche specifiche di personalità”, così da giungere a definire ciò che si ritiene una non adeguatezza, una non stima di sè. In questo mercato identificatorio, un individuo potrà dirsi, ed essere detto: poliassuntore, disturbato, iperattivo, abbandonico, trans, carente, deficitario, ecc. La tendenza alla generalizzazione si spinge fino ad eliminare le differenze tra uno e l’altro. Ciò avviene perchè incessante è la ricerca di una risposta possibile sull’essere e del godimento che in parte lo abita.
Non c’è per la psicoanalisi una mania tassonomica che tenti di ridurre il particolare all’universale, l’unicità alla molteplicità. La psicoanalisi fin dai tempi di Freud si è interessata alle identificazioni inconscie, non quelle appiccicate per potersi dire: io sono. Al “io sono” pronunciato per darsi consistenza, si potrebbe sempre rispondere con una domanda:”chi glie’ha detto?”.
Le identificazioni come rivestimenti di quella mancanza che affligge l’essere che parla: parlessere appunto. E’ questa afflizione, ritagliata dal linguaggio, che marca la differenza con il concetto filosofico della mancanza ad essere. Sono ciò che copre, che riveste la mancanza strutturale dell’essere parlante con abiti verbali, abiti fatti della stoffa e della trama del linguaggio intrecciato e appogggiato su un nucleo di godimento. A volte sono abiti stretti che stringono il fiato e negano ogni possibilità di movimento, a volte sono abiti usati e non più riadattabili. Per questo nel lavoro dell’analisi viene attraversato il piano delle identificazioni; vengono smontate, staccate una ad una, fino a giungere, nell’esperienza analitica, quella destituzione soggettiva che lascia per un attimo nella sospensione dell’essere, in quel tempo-non tempo del dis-essere, in quell’inanità dell’essere di cui un’analizzante fa esercizio essendo impegnato nel nodo tra immaginario, simbolico e reale … ma per fortuna l’analista è lì, in presenza, sembiante dell’oggetto a, fino a che l’analizzante non si alza e girandosi, lo lascia cadere accettando il vuoto da cui è costituito e su cui le identificazioni si sono innestate. Il soggetto infatti implica l’essere iscritto in un vuoto ed è ciò che risulta dalla congiunzione dell’eterogeneità del sesso e del godimento. Le identificazioni alloggiano nella congiuntura di immaginario e simbolico e con Freud poggiano nell’ideale dell’io.
L’essere vuoto del soggetto si capitona a ciò che gli viene fornito per dirsi e a ciò che diviene l’essere diviso in se stesso. L’epoca di Freud era caratterizzata dall’alta moda delle identificazioni: gli ideali seppur scricchiolanti e instabili avevano una loro tenuta, o almeno cosi, successivamente, è stato ipotizzato. Che ne è oggi di quella strana mistura che fa convergere narcisismo, l’io ideale, le identificazioni con i genitori, con i loro sostituti e con gli ideali collettivi sempre più sfilacciati?
Oggi in cui gli ideali generalizzati sono evaporati, in cui c’è una debolezza della proposta identificatoria, il mito edipico, qualificato come tale da Lacan, ha introdotto e svelato il vero volto dell’ideale: quello di un godimento supposto essere stato confiscato dal padre.
In una analisi ciò che viene demolito, attraverso lo strumento “equivoco” del linguaggio, sono le identificazioni, con la possibilità di una modificazione degli ideali: ciò che viene in primo piano, in un al dilà dell’edipo, è l’amore e il rispetto fondati sul discorso dell’analista. Il trattamento sotto transfert dei sintomi, nei vari giri produce una nuova posizione soggettiva: identificazione con il sintomo, una posizione di certezza nel posto originariamente occupato dalla credenza della significazione che arriva dall’Altro. Alla fine di un’analisi: un nuovo amore, una nuova soggettivazione e il riconoscimento da parte del soggetto del suo particolarissimo modo di godere, della sua particolare condizione di godimento. Ciò che produce un’analisi è il dissiparsi del sembiante del padre.
[1] <#_ftnref> « Prêt-à-porter » è un termine mutuato della lingua francese che tradotto letteralmente significa « pronto da indossare ». E’ il settore dell’abbigliamento della moda costituito da abiti realizzati non su misura del cliente, ma venduti finiti in taglie standard pronti per essere indossati. Si contrappone quindi agli abiti di sartoria come ad esempio quelli dell’alta moda. Rappresenta il passaggio dalla sartoria artigianale e dal vestito su misura alla industrializzazione del tessile, con la standardizzazione delle taglie che permette la produzione in serie degli abiti.