Raffaele Calabria
UNA PICCOLA
TESTIMONIANZA
Ci sono degli incipit nei Seminari di Lacan che
hanno qualcosa di memorabile. Uno di questi è quello del XVII° (Il
rovescio della psicoanalisi) dove egli racconta di aver risposto ad una
persona, che gli chiedeva notizie sul luogo del seminario, con una
frase allusiva e irritata. E’ la reazione della persona che gli fa
cogliere quanto la sua risposta fosse inappropriata e, nel luogo del
seminario, porgerà le sue scuse aggiungendo: “…non è mai a partire
dall’eccesso di qualcun altro che, almeno apparentemente, ci si mostra
irritati. E’ sempre perché questo eccesso viene a coincidere con un
nostro eccesso.”. E’ su questo eccesso, supposto dell’Altro, che vorrei
dirne qualcosa dal mio parziale e limitato punto di vista.
La
psicoanalisi, non ad orientamento lacaniano, da decenni (e precisamente
sull’onda della rivoluzione basagliana) ha fatto da padrona nel campo
delle Istituzioni di Salute Mentale, dettando sia le regole di
indirizzo procedurale che quelle di intervento professionale.
L’interpretazione psicoanalitica ha “governato” qualsivoglia modalità
relazionale tra operatore e malato, raggiungendo punte di ostentata
saccenteria e di ingannevole ottimismo. Le parole d’ordine erano
“relazione”, “vissuto” e “conflitto”, con qualche puntatina su
“proiezione” e “controtransfert”. Il primariato era quasi esclusivo
appannaggio di importanti personaggi del mondo psicoanalitico ed ogni
avvento di teorie “deviazioniste” veniva bollato di “colonialismo e
superficialismo americano”, rifiutato aprioristicamente e ritenuto non
all’altezza di seria considerazione.
Forse esagero nel mio sarcasmo
ma, nel di poi, non posso non considerare l’eccesso cui siamo
confrontati come una possibile risposta all’eccesso su cui sono
cresciuto. Nessun diniego della storia ma solo il riconoscimento di una
propria responsabilità nella partita in gioco. E il mio pensiero va
subito a quei familiari che per molto tempo abbiamo con faciloneria
“criticato” dall’alto del nostro sapere così male utilizzato. Familiari
che si sono ritrovati a dover gestire in profonda solitudine la
malattia mentale dei propri figli, dovendo persino sopportare il
dileggio di coloro che erano preposti a sostenerli. Il loro
associazionismo, male orientato, si è così rivelato un boomerang
rivendicativo e in alcuni casi persino distruttivo.
Attualmente
l’invasione del cognitivismo ha messo un po’ tutti noi, della “vecchia
guardia”, ai margini rispetto alla gestione della nuova organizzazione
dei Servizi (l’accreditamento e la qualità) e all’impostazione e messa
in opera di strategie di coping e di recovery. I nuovi padroni
rilanciano la necessità di rivedere persino il linguaggio psichiatrico
descrittivo che, in talune situazioni, si rivela sorprendentemente
appropriato e rispettoso dei nostri malati. E’ la guerra al
“pregiudizio psicoanalitico” in nome di un futuro scientista che,
partendo dalla certezza che la malattia mentale affondi le radici in
inafferrabili microlesioni dei circuiti neuro-cerebrali, già designa le
tecniche di evidenza, basate su prove statistiche, adeguate a
correggere il disadattamento deficitario e ad aprire nuovi orizzonti di
guarigione psico-sociale.
In tutto questo l’Università italiana,
così come un tempo, promuove, sostiene e galvanizza il cambiamento
rivelandosi ancora una volta un formidabile centro di potere in grado
di saper “approfittare” del generale disorientamento, rimanendo
falsamente neutrale e comunque a dovuta distanza dalla concreta
operatività clinica dei servizi sanitari. Qualche perla qua e in là, ma
incapace di illuminare la crescente e dilagante desertificazione di
pensiero.
Gli interventi che mi hanno preceduto hanno ben
sottolineato i compiti che ci attendono in questa fase nuova e
complessa, sotto l’egida dell’indicazione politica, tutta da
sbrogliare, di J.-A. Miller: “La psicoanalisi del XXI° secolo è
diventata una questione sociale.”. Per mio conto desidero sottolineare
due aspetti che mi implicano direttamente nella mia pratica clinica
istituzionale: tenere vivo quello straordinario operatore di cura, che
Lacan ci ha donato sotto il termine “desiderio dell’analista”, al di là
di ogni dispositivo che ne ingabbia la portata; saperci essere nei
luoghi di innovazione e dibattito istituzionale per provare ad avere
all’orizzonte la soggettività della mia epoca.
E nel silenzio,
appena visibile, del mio lavoro clinico ho incontrato recentemente,
dopo quindici anni di psichiatria, un quindicenne autistico inviatomi
perché ritenuto incapace di relazionarsi con i compagni e per gravi
problemi depressivi, accompagnati da persistenti ideazioni suicidarie.
Dopo pochi incontri ho conosciuto il suo sorriso e con esso le sue
ideazioni di morte: trovare il modo di farla finita perché l’enorme
quantità di obblighi da sbrigare e da ottemperare lo allontanano sempre
più dalla sua passione, quella degli insetti ed in particolare i
coleotteri. Il suo sapere entomologico è mostruosamente enciclopedico,
la sua grazia nel maneggiare questi orrendi animaletti è sublime, il
distacco affettivo con cui mi parla è disarmante.
Saprò farmi suo
partner docile ma rigorosamente attento? Saprò essere all’altezza dei
suoi improvvisi quanto sconcertanti interrogativi sulla sua malinconia?
Saprò resistere alla tentazione di offrire scontate risposte
comportamentali ai dolorosi quesiti che i suoi familiari mi pongono
costantemente? Sono già assoggettato al lavoro.