DELL’AUTISMO NON SENZA DESIDERIO di FRANCESCA CARMIGNANI
“E’ finita la democrazia e qualcuno non mi ha informato?” chiede con
amara ironia la mamma di Fabio, un bambino autistico, prendendo la
parola riguardo alla proibizione dell’utilizzo dell’orientamento
analitico nel trattamento della sofferenza del figlio e come di lui
anche di molti altri bambini. La domanda viene posta nel corso di uno
dei preziosi momenti di dibattito che hanno scandito il ritmo delle
giornate che hanno preso avvio Venerdì 24 Febbraio tramite la
presentazione del volume “Qualcosa da dire al bambino autistico”
(Borla, 2011) tenutasi presso la libreria Centofiori a Milano con
interventi di A. Di Ciaccia, V. Baio, G. Spazzali, G. D’Arrigo, M.
Focchi. I lavori sono proseguiti con la Discussione clinica,
organizzata a Milano nei due giorni successivi dall’Istituto freudiano,
dal titolo “A proposito dell’autismo”.
Il nome del compianto Martin Egge ha accompagnato questo incontro
clinico avvolto in un’atmosfera appassionata e coinvolgente. E proprio
le testimonianze dei genitori riportate nel suo intervento di apertura
da Chiara Mangiarotti focalizzando dei ricordi che mostrano quest’uomo
amabile e clinico preciso affrontare con il suo stile un reale che non
fa sconti a nessuno e sono uno dei segni più tangibili dell’efficacia
della sua pratica quotidiana anche come direttore terapeutico dell’
Antenna 112 e dell’Antennina di Venezia, due luoghi di vita per bambini
e adolescenti autistici e psicotici.
Ma la nascita di questo luogo fu possibile perchè esso si è trovato
sulla scia di filiazione provocata dall’esperienza inaugurale dell’
Antenne 110 fondata in Belgio nel 1974 da Antonio Di Ciaccia.
E proprio la lezione magistrale di quest’ultimo ci ha mirabilmente
aiutato a mettere in logica la teoria della clinica che rende conto
della sua invenzione, nominata da Jacques-Alain Miller nel 1992
pratique-à-plusieurs, una modalità del la
voro in istituzione con bambini autistici e psicotici. Di Ciaccia
parte riportando l’attenzione sul modo in cui ha preso forma in Italia
il tentativo di mettere al bando la psicoanalisi, non solo lacaniana,
nella cura dell’autismo, sia attraverso le linee guida decise dal
Ministero della salute, sia nell’offensiva contro il lavoro dei
lacaniani in tale ambito, la quale ha apertamente preso l’avvio sulla
carta stampata, con parole a cui il documento pubblicato da la
Repubblica grazie alla giornalista Luciana Sica e firmato da Stefano
Bolognini, Simona Argentieri, Luigi Zoja e Antonio Di Ciaccia ha inteso
replicare con forza (vedi su questo sito). Il fondatore dell’ Antenne
sottolinea l’importanza di preservare l’intervento psicoanalitico per
chi lo desidera, rilevando dunque, se posso dire, una sorta di errore
del nodo tra il discorso politico e il discorso clinico, tra i quali il
passaggio sembra talvolta inattuabile. Forse la questione è,
parafrasando l’intervento di Lacan pronunciato a Milano nel ’72: può il
discorso del padrone ministeriale essere un po’ meno stronzo? Sì, se
quest’ultimo accettasse la circolazione tra i discorsi facendosi
interrogare dalle sue stesse impasse.
Si tratta di impasse nella diagnosi ad esempio, se pensiamo che a
essere autistici sono soggetti che vanno dall’essere completamente
sommersi da un godimento irrefrenabile in cui la parola non trova posto
a geni artistici alla Gleen Gould s
u cui proprio Martin Egge ha scritto un saggio puntuale e
appassionato (Quodlibet, 2008).
Di Ciaccia precisa che nel caso più estremo di bambini che non
parlano e si presentano con un complemento, un “organo supplementare”
(che sia un’inseparabile tazza rossa da tenere in testa oppure gli
umori del naso da cui non volersi pulire) il lavoro da compiere è di
arrivare ad affiggere a tale oggetto uno statuto significante, facendo
come se si trattasse di un significabile, conferendogli per l’appunto
lo statuto di significante, affinché, accoppiato a un secondo
significante (prelevato anch’esso dal bambino o prestato dall’adulto),
venga, seppur minimamente, a rappresentare il soggetto. Come si vede,
non è che il risvolto clinico dell’hegeliana uccisione della cosa,
ossia di quell’ Aufhebung che permette di elevare alla dignità
significante l’oggetto del bambino ponendolo in una dialettica, da
intendersi come la messa in moto di un fort-da, per usare l’espressione
che evoca il rocchetto freudiano, ossia di un’opposizione significante
almeno minimale. In seguito al primo oggetto elevato allo statuto
significante si deve arrivare a poter aggiungere un altro significante
e così via… Si pensi a una nota di chitarra che Virginio Baio, con
una “gentile forzatura” come la definisce Di Ciaccia, introduce come
discontinuità nell’alternanza sonora proposta ripetitivamente da un
bambino autistico. In quei momenti se è possibile rilevare una risposta
da parte del ragazzino (nella situazione citata ci fu un sorriso)
allora vuol dire che si è dato quantomeno un minimo di soggettivazione.
Affinchè accada ciò è necessaria una presenza desiderante forte,
tenendo conto che in istituzione non si attiva e non ha da attivarsi un
transfert sul soggetto supposto sapere, quanto, piuttosto una sorta di
transfert “familiare” ossia immaginario, e la pratique-à-plusieurs va
proprio nella direzione di diluire e pluralizzare il tra
nsfert che è piuttosto un “farsi partner”. Un’istituzione per
funzionare ha da rispondere alla struttura dell’inconscio e un esempio
di questo è proprio la famiglia, che sia allargata o ristretta. Torna
l’importanza di dare un posto al sapere dei genitori sui loro figli ed
in primis di scollare il genitore della realtà dalla sua versione
fantasmatica che è quella che, confondendo i registri, fa sì che in
certe correnti di pensiero si accusino i genitori di freddezza o di
essere la causa della sofferenza dei loro figli.
Prenderò in esame, tra i quattro casi presentati dall’Antenna 112 di
Venezia, dal laboratorio Pio Pao di Ancona, dall’Antenna Beolchi di
Cuggiono, quello lavorato dall’équipe del Buon Pastore di Bologna. Il
caso di Natalia ci permettere di cogliere con precisione come le
cosiddette stereotipie o fenomeni di ripetizione nella visione
psichiatrica siano in realtà i mattoni possibili per effettuare delle
costruzioni intese come articolazioni significanti più raffinate.
Inizialmente gli operatori osservano da parte della ragazza
picchiettamenti e ne ascoltano una voce alterata fino a provocare la
reazione aggressiva dell’altro. In questo caso viene mostrato come una
situazione continuativa di sofferenza reale possa portare a una non
iscrizione del Nome del Padre. Natalia ha infatti vissuto,
piccolissima, una condizione che può essere ricondotta all’ospitalismo
descritto da Spitz.
Tornando al caso di Natalia, in effetti il bambino necessita che
l’articolazione S1 ed S2 si instauri da prima possibile. La prima
articolazione è lo scambio di sorrisi. Non basta l’amore. L’amore è già
un effetto del fort-da, sottolinea Di Ciaccia. L’amore che risponde
all’ S1-S2 è quello che consiste nel riconoscere il soggetto senza
volere da lui niente in cambio. Natalia dà un input e se ne ricava, per
così dire, un atelier, cioè lo si organizza appoggiandosi su di un
significante proposto da lei oppure a partire da un forte desiderio
dell’operatore a cui il bambino si possa agganciare per ottenere
un’identificazione. Qui si tratta di un laboratorio sulle canzoni che
le permette di coniugare la lingua materna (non italiana) con quelli
che sono il desiderio e il sapere paterno sulla canzone in modo da
bordare l’oggetto voce. Tutto ciò può essere letto teoricamente grazie
all’utilizzo che Di Ciaccia ha suggerito degli schemi di Lacan,
rispetto al funzionamento del soggetto autistico, per il quale gli assi
delle ascisse, la realtà (verso l’io ideale), e delle ordinate, il
simbolo (verso l’ideale dell’io), dall’essere raggrumati in un punto
potranno svolgersi tramite le articolazioni significanti, ad esempio,
per Natalia, delle canzoni. In effetti Di Ciaccia, nella sua lezione,
ha operato una ripresa dello schema R che è di per sé visto
allo specchio, mostrando come si debba partire dalle coordinate del
soggetto proposte nel Seminario V, ma chiarendoci come se ne debba
considerare la disposizione prespeculare, che è lasciata sottintesa da
Lacan, e invece risulta essenziale per l’operatività clinica.
Tornando al caso di Natalia, per lei ha potuto attivarsi un
trattamento della persecutorietà dell’oggetto sguardo allorchè
l’educatore si sia mostrato docile alla sua richiesta di farle
l’occhiolino, che diviene una sorta di occhio barrato.
Dunque c’è umilmente da seguire il cammino del soggetto, creando le
condizioni affinché quest’ultimo possa sempre più simbolizzare e
mettere in catena.
Termino, chiedendo venia ai lettori, con un piccolo ricordo
“clinico”. Giovane tirocinante universitaria di psicologia in un centro
diurno socioeducativo, incontrai Manuel, ragazzo diciottenne
diagnosticato dai servizi come autistico cosiddetto ad alto
funzionamento. Manuel aveva gli occhi quasi costantemente fissi al
cielo e muoveva spesso la testa da sinistra a destra e viceversa e alle
richieste di eseguire dei compiti che gli erano poste dagli educatori,
aggrappati nel tentativo di disangosciarsi al sapere offerto da una
certa pedagogia dell’apprendimento, Manuel rispondeva costantemente
“Sì”. Ma un giorno, scambiando una battuta con un altro ospite del
centro, commentai senza guardarlo e accertandomi che lui ci potesse
sentire: “Non preoccuparti Lara se si sono macchiate le camicie. Sarà
Manuel a lavarle?”. Lo dissi proprio io che ero presa in giro per la
mia goffaggine in quel tipo di mansioni domestiche. Fu allora che si
udì la voce del ragazzo pronunciare un seppur flebile “No”. Al momento
non capii la logica di ciò che era accaduto, ma festeggiai. Avevo
riconosciuto a Manuel, accusato spesso di non lavarsi abbastanza, il
diritto di scelta e, soprattutto, il mio desiderio di non occuparmi
delle pulizie per interessarmi d’altro nella stanza aveva fornito un
aggancio al desiderio di Manuel.
Oggi, illuminati da Lacan, è nostro compito dare voce a quel “No” che
gli autistici soffrono di non riuscire a dire all’essere fatti oggetto
del godimento medicalizzante di coloro che vogliono fuggire di fronte
all’angoscia scatenata dal reale implacabile che questi soggetti ci
mostrano sulla loro carne. Forse si tratta proprio di questo quando
decliniamo nel sociale l’indicazione puntuale fornitaci da Virginio
Baio: occorre essere docili con il soggetto e intrattabili con l’Altro.
E tale posizione sarà possibile mantenerla non indietreggiando
angosciati di fronte alla verità scomoda che l’autistico ci mostra,
ossia che tutti al di là della particolare struttura abbiamo da
confrontarci con l’autismo di quel godimento, che è singolare per
ciascuno di noi.