DIARIO DELLE GIORNATE DI TORINO #6
Al di là del metalinguaggio l’inconscio interpreta. E l’analista?
Una delle tavole rotonde della sessione plenaria di sabato del nostro prossimo Convegno è giustamente dedicata alla critica della nozione scientista dello psicoanalista come specialista dell’inconscio.
Nel campo psicoanalitico l’idea di uno specialismo dello psicoanalista a partire da alcuni terreni della clinica, nella psicosi ma soprattutto l’infanzia ha già fatto anche un po’ di storia. Anna Freud ci provò, ma non riuscì, a realizzarne la traduzione in formazione specialistica. Oggi invece l’idea specialistica investe direttamente l’inconscio, al di là dello specifico clinico. E lo psicoanalista è presentato come un tecnico formato a tale compito. E’ un’idea che si fonda su una contraffazione dell’inconscio stesso. Questa contraffazione Lacan l’aveva già affrontata parlando dell’inconscio strutturato come un linguaggio, che l’inconscio non è un entità sostanziale anteriore o a lato del linguaggio. L’inconsciò è sempre là dove c’è linguaggio e da qui consegue, Lacan lo ha sottolineato, che non c’è metalinguaggio perché l’inconscio stesso ne eccede sempre l’operatività. Non si può parlare con un linguaggio ripulito dall’inconscio. Come può dunque l’analista operare con un metalinguaggio posto fuori da qualsiasi rapporto con l’inconscio, senza mai rischiare di venirne superato? Nessuna psicoanalisi potrà mai “liquidare” il rapporto di ciascuno con l’inconscio. Solo a questa condizione appunto avremmo lo psicoanalista specialista dell’inconscio, una delle espressioni del grande sogno scientista di sradicarci dal nostro essere di parlanti. Dire che l’inconscio non sostiene il metalinguaggio vuol dire, come ci ha avvertito tempo addietro Jacques-Alain Miller, che l’inconscio stesso è interpretazione. L’inconscio è interpretazione cosi’ come Freud diceva che il sogno è elaborazione dei “resti diurni”, è interpretazione che sposta, connette, sostituisce, introduce nuove combinazioni di quei resti che sono frasi, immagini, che permeano i nostri ricordi, gli eventi, il fantasma. L’inconscio non è il ricettacolo di questi resti appunto perché ne è un’interpretazione. Lo psicoanalizzante è al lavoro dell’interpretazione fornitagli dall’inconscio. E l’analista? Prolunga l’interpretazione dell’inconscio, fornendogli il significante di un senso altro, o è anche colui che, dice Miller, non imita l’inconscio, piuttosto separa il soggetto analizzante dal suo modo usuale di godere dell’ interpretare i suoi resti diurni? Maurizio Mazzotti