vi invio qui di seguito copia di articolo di M. Recalcati pubblicato ne Il manifesto di domenica 10 febbraio 2008 relativo alla depressione a cui segue un comunicato concernente la ristampa del Seminario VII di Jacques Lacan.
Cordiali saluti
Adele Succetti
Un desiderio di desideri: la malinconia Lev Tolstoj in «Anna Karenina»
Così parla l’altra voce del discorso capitalista
Mentre la grande meditazione filosofica ci confronta con l’esperienza del limite, la odierna melancolia sembra legata acriticamente a una circolazione impazzita del godimento. E il suo nucleo è in un vuoto che non conserva più niente di metafisico Il carattere epidemico del male di vivere, evidenziato da un annuncio della Organizzazione mondiale della sanità, è la drammatica risposta all’obbligo di essere felici.
Massimo Recalcati
L’organizzazione mondiale della sanità ha stabilito che, nel 2020, la depressione sarà la prima causa di invalidità, dopo le malattie cardiocircolatorie, nelle cosiddette società del benessere. La sua diffusione epidemica è avvertita come un problema di sicurezza sociale, la sua minaccia incombe su tutti noi, la sua sirena mortifera sembra non conoscere argini. I governi assumono iniziative per informare i cittadini sui rischi che la depressione comporta e sui modi per vincerla. Da quattro anni a questa parte, il 9 ottobre si celebra la giornata della depressione, sia in Italia che in altri cinque paesi europei (Francia, Spagna, Belgio, Regno Unito, Germania) mentre negli Stati Uniti una iniziativa simile esiste già dal 1991. D’altronde, l’uso della diagnosi di depressione si è inflazionato a tal punto che l’etichetta di «depresso» non si nega a nessuno, nemmeno ai bambini, ai quali infatti non si risparmia, ormai da tempo, l’uso del Prozac. Mentre una tribù di specialisti assicura la conoscenza adeguata del problema e propone la sua soluzione terapeutica tecnicamente più efficace, in tutto il mondo occidentale le aziende farmaceutiche si prodigano per proporre antidepressivi sempre più aggiornati e il loro consumo è in costante crescita. Un dato è certo: l’epidemia depressiva non deprime il loro business.
Ma la depressione è davvero un sintomo che contraddistingue in modo particolare il nostro tempo? Per un verso essa accompagna da sempre come un’ombra la realtà umana, essendo un affetto – ossia una situazione emotiva – attraverso il quale l’esistenza viene confrontata con se stessa, con la propria fragilità, con la propria costituzione lesa e imperfetta. Per un altro verso, però, la sua diffusione di massa ne fa un sintomo con peculiarità nuove e il suo carattere epidemico non è un dato meramente statistico, perché rivela piuttosto una paradossale congiuntura tra l’affetto depressivo e quello che Lacan aveva formalizzato come «il discorso del capitalista». Formula con la quale si intende quel tipo particolare di legame sociale sostenuto dalla pretesa illusoria di eliminare il dolore di esistere tramite la messa a disposizione di un godimento immediatamente accessibile, millantando la possibilità di sanare la lesione che attraversa la realtà umana e la rende strutturalmente precaria e mancante attraverso il consumo di oggetti del godimento.
La potenza del «discorso del capitalista» non consiste affatto nel liberare gli uomini dalla schiavitù dei loro bisogni, ma nell’alimentare continuamente la loro domanda attraverso l’offerta illimitata di oggetti-gadget. In questo contesto, le aziende farmaceutiche, protagoniste indiscusse del business intrinseco alla terapia cosiddetta antidepressiva, sono una manifestazione specifica del discorso del capitalista. Pretendendo di offrire il rimedio giusto – la pillola della felicità – lungi dal favorire la cura della depressione finiscono in realtà per incoraggiarne la diffusione. Infatti, non soltanto il consumo degli antidepressivi può rivelarsi inefficace nel trattamento della depressione, ma tende talvolta ad alimentare una spirale maligna di dipendenza. Gli psicofarmaci sono, in effetti, oggetti specifici del nostro tempo, proprio perché la fede nella loro azione condensa l’idea secondo la quale esisterebbe una cura mirata per il dolore di esistere. Dire questo non equivale a demonizzare l’uso clinico degli psicofarmaci, che in certe situazioni sono effettivamente necessari e insostituibili, bensì invitare a cogliere il significato relativo alla promozione sociale della loro azione: una azione che, facendo a meno dello scambio simbolico con l’altro, facilita l’isolamento della persona favorendo la sua depressione.
Ecco un insegnamento fondamentale della psicoanalisi: se l’angoscia proviene dall’incontro con il proprio desiderio, la depressione annulla l’angoscia e, di conseguenza, proietta il desiderio nello stagno immobile di un tempo senza avvenire. Consiste in questo, per Lacan, la viltà etica che accompagna l’affetto depressivo, ossia la scelta di indietreggiare di fronte al proprio desiderio e di preferire ad esso il rifugio in un godimento solitario e distruttivo, capace di sottrarci al campo delle relazioni umane.
Uno dei tratti fondamentali della contemporaneità consiste, in effetti, nel fatto che si è allentata la natura simbolica del legame sociale. Perciò, l’uomo contemporaneo appare alla deriva, smarrito, privo di riferimenti ideali capaci di esercitare una funzione orientativa, insofferente verso le perturbazioni che intervengono inevitabilmente nell’incontro con l’altro sesso, condizionato dall’offerta incalzante degli oggetti-gadget che si propongono come nuovi partner inumani, a portata di mano e di bocca, capaci di rimpiazzare l’incontro angosciante con l’imprevedibilità del desiderio. Il nostro è il tempo, come scriveva già Adorno in Minima Moralia, del godimento monadico, ovvero di una esasperazione autistica dell’individuo che esclude la sua dimensione sociale e collettiva.
La elettrizzante girandola degli oggetti-gadget, nella quale rientra anche l’oggetto-psicofarmaco, avvolge noi ipermoderni in un’atmosfera di maniacalità collettiva. E l’obbligo di essere felici si impone come un nuovo comandamento superegoico. In questo contesto, la depressione va letta come il rovescio del «discorso del capitalista», come la sua verità rimossa, come l’altra faccia della sua euforia maniacale. Mentre la grande meditazione filosofica (da Schopenhauer a Leopardi) ci confronta con l’esperienza del limite e dell’inconsistenza dell’universo – in questo senso la malinconia è una componente per certi versi ineliminabile dell’attitudine teoretica – la depressione contemporanea sembra legata acriticamente a una circolazione impazzita del godimento, in una sorta di contrappunto critico con «le magnifiche sorti e progressive» del mito capitalista derivato dalla rivoluzione industriale e dalla ragione tecnologica.
Il suo focus non è tanto nell’esperienza del nulla, nell’assenza di fondamento, nel limite della ragione tecnologica, ma in un troppo pieno, in un’assenza di pensiero; o, se si preferisce, in un vuoto che non ha più niente di metafisico perché è, in realtà, solo il prodotto rovesciato del pieno derivato dal godimento. È depressione da confort, da routine, da caduta del desiderio, da eccesso di conformismo, è la depressione che deriva dall’apice maniacale del divertissement.
I quotidiani giapponesi della fine degli anni ’90 registravano, nelle pagine di cronaca, la diffusione inquietante di suicidi di uomini d’affari disperati dall’andamento critico del sistema economico. Uomini intorno ai cinquant’anni, per lo più manager, decidevano di togliersi la vita gettandosi sotto i treni. Per il pragmatismo giapponese uno degli effetti non trascurabili di questo fenomeno erano i frequenti ritardi che paralizzavano il traffico delle grandi città. Una compagnia di treni escogitò un rimedio installando nelle stazioni ferroviarie quelli che vennero chiamati «specchi antisuicidio». Si pensò, infatti, che vedere la propria immagine allo specchio avrebbe dovuto garantire una iniezione di narcisismo provvidenziale in persone che si percepivano come svuotate di ogni valore. Forse, il fondamento teorico degli specchi antisuicidio si trova in quella ipotesi classica del post-freudismo formulata da Judith Jacobson, secondo la quale la depressione segnala un fondamentale impoverimento narcisistico dell’Io. Tuttavia, l’uso degli specchi antisuicidio non può non mostrare la sua ingenuità, riflettendo innanzi tutto l’illusione secondo la quale l’identità individuale troverebbe la propria rassicurazione in protesi inumane come la droga, il cibo, i computer, l’alcool, gli psicofarmaci, e persino nella propria immagine speculare fornita dallo specchio. La logica che motiva gli specchi antisuicidio presuppone una nozione massimamente elementare del narcisismo, di cui la depressione anoressica ci offre una illustrazione precisa: l’immagine ideale del corpo-magro non coincide mai con quella restituita dallo specchio, perché anzi l’immagine speculare può assumere caratteri beffardi, persecutori e affliggere il soggetto proprio perché non potrà mai coincidere con l’immagine ideale di sé. Lungi dunque dall’agire come una iniezione di narcisismo, essa innesca la depressione proprio per la sua inevitabile inadeguatezza all’immagine idealizzata del corpo-magro.
La funzione positiva dell’immagine sarebbe quella di abbigliare il soggetto in modo che il reale della sua nuda vita non emerga traumaticamente, ma sia rivestito da un involucro immaginario. Se noi non ci vediamo, per esempio, come una muffa assurda (cosa che invece, letteralmente, accade in determinati deliri melanconico-ipocondriaci) è perché il reale della nostra nuda vita è stato sufficientemente rivestito dal valore narcisistico dell’immagine del corpo, e questo avviene grazie all’accompagnamento simbolico determinato dallo sguardo benefico dell’altro. È attraverso quello sguardo che – come hanno diversamente ripetuto Lacan e Winnicott – possiamo in effetti riconoscere la nostra stessa immagine. Come dimostra la melanconia grave, la vita biologica non è in sé sufficiente a fornire il sentimento della vita. Non a caso Freud nelle Nevrosi di traslazione, in una evocazione mitica, associa la melanconia all’epoca filogenetica della glaciazione: la vita spogliata da ogni supporto narcisistico appare priva del calore umano che serve alla vita, e dunque appunto gelata. Effettivamente, nelle persone che soffrono di melanconia psicotica troviamo proprio questo vuoto arcaico determinato dal fatto che lo sguardo dell’altro, nella sua severità e nella sua intransigenza, non ha permesso loro di formarsi un ideale dell’io sufficientemente strutturato. Perciò, la persona melanconica si identifica con lo scarto, con il rifiuto, con la certezza, come afferma Lacan, dell’«io non sono niente».
Diversamente, alla base della depressione nevrotica sta la perdita di un oggetto narcisistico, sia esso un lavoro prestigioso, o la percezione del tramonto della propria giovinezza, o l’immagine del proprio corpo deteriorata, o – ancora più radicalmente – la perdita di un oggetto d’amore (un marito, un genitore, un figlio). In mancanza di amore, la nostra esistenza si trova di nuovo confrontata con il suo proprio reale, con ciò che Lacan ha nominato come disgiunzione della vita dal senso. È per questa ragione che una delle congiunture di innesco più frequenti della depressione è, appunto, la crisi o la fine di una relazione amorosa. E questo spiega anche perché la radicalità del discorso amoroso esponga le donne, che non sono ipnotizzate, né ingombrate in partenza dal miraggio dell’avere fallico, a patire di più questa ferita e a percepirne il carattere difficilmente rimarginabile.
Nello scacco depressivo, dunque, noi ci ritroviamo come fossimo senza immagine, ridotti a un oggetto di scarto, costretti a ripetere la sfasatura strutturale tra l’immagine ideale che abbiamo di noi e la nostra stupida esistenza. Mentre il «discorso del capitalista» reagisce a questa sfasatura cercando strumenti per ricomporla artificiosamente – per esempio ventilando il miraggio della pillola magica o degli specchi antisuicidio – e dunque inseguendo la finalità di riabilitare l’individuo depresso convertendolo in un buon consumatore anonimo, la psicoanalisi non riduce la depressione né a un deficit dell’umore (che lo psicofarmaco dovrebbe ricondurre alla normalità), né a un deficit dell’adattamento o dell’azione (che il buon senso psicologico vorrebbe curare con il rafforzamento della volontà indebolita del soggetto). Piuttosto riconosce nella depressione una esperienza capace di rivelare una verità profonda dell’essere umano: la difficoltà di assumere il proprio desiderio e la sua natura finita, destinata alla morte. In questo senso tutti siamo un po’ depressi e le fumisterie maniacali del discorso capitalista, che vorrebbero esorcizzare questo elemento traumatico, evidenziano proprio attraverso l’epidemia depressiva, che la verità più radicale dell’uomo è estranea al potere ipnotico e seduttivo dell’oggetto del godimento.
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L’etica della psicoanalisi
In ristampa il VII seminario di Lacan
Tra le prossime uscite in ambito psicoanalitico, la ristampa del VII seminario di Lacan, dedicato all’etica della psicoanalisi, in libreria a maggio per Einaudi. Considerato un punto di svolta, questo seminario presenta un Lacan diverso dal teorico dell’inconscio strutturato come un linguaggio. L’etica della psicoanalisi, altrimenti da quella della tradizione filosofica, non ha più come perno il riferimento agli ideali ma si produce dal confronto tragico con la dimensione del reale. Di qui le celebri lezioni che elevano Antigione a modello dell’etica analitica.