Non sempre sfogliare la cipolla fa piangere
Sergio Caretto
Che piaccia o meno, la cipolla è un bulbo rievocato a più riprese nell’opera freudiana quale metafora per rappresentare la molteplicità delle stratificazioni identificatorie di cui l’io si nutre, al fine di evitare al soggetto l’incontro col reale della divisione. In Freud l’identificazione paterna sarebbe fondante e alla base delle successive identificazioni e, anche per questa ragione, dirà che non vi è lutto più doloroso da compiere per un uomo che quello legato alla morte del proprio padre. Come apprendiamo in una lettera a Fliess dell’ottobre del 1896, fu proprio il confronto col reale della morte del proprio padre a costringere Freud ad intraprendere la propria analisi personale, nel tentativo di far fronte ad un doloroso senso di smarrimento e sradicamento mai vissuto prima. Il reale ”se ne fa un baffo” dell’ideale paterno, facendo saltare la pretesa perfezione della cipolla e rivelando che anche il padre, per dirla con l’ultimo Lacan, non era che un sintomo. Analisi dunque quale percorso per elaborare il lutto della propria versione paterna e per giungere a cogliere il nocciolo di reale che concerne il soggetto nel suo più intimo e nella sua unicità.
A far luce sul bulbo in questione: la parola al poeta.
La cipolla
La cipolla è un’altra cosa.
Interiora non ne ha.
Completamente cipolla
fino alla cipollinità.
Cipolluta di fuori,
cipollosa fino al cuore,
potrebbe guardarsi dentro
senza provare timore.
In noi ignoto e selve
Di pelle appena coperti,
interni d’inferno,
violenta anatomia,
ma nella cipolla-cipolla,
non visceri ritorti.
Lei più e più volte nuda,
fin nel fondo e così via.
Coerente è la cipolla,
riuscita è la cipolla.
Nell’una ecco sta l’altra,
nella maggiore la minore,
nella seguente la successiva,
cioè la terza e la quarta.
Una centripeta fuga.
Un’eco in coro composta.
La cipolla, d’accordo:
il più bel ventre del mondo.
A propria lode di aureole
Da sé si avvolge in tondo.
In noi – grasso, nervi, vene,
muchi e secrezione.
E a noi resta negata
L’idiozia della perfezione.
Wisława Szymborska