Separazioni
Paola Bolgiani
Viviamo in un’epoca in cui, nella dialettica alienazione-separazione, che Lacan ci insegna essere la dialettica fondamentale alla base della costituzione del soggetto, la bilancia pende drammaticamente dalla parte dell’alienazione. L’individuo è chiamato ad adattarsi, a conformarsi, ad essere flessibile, a farsi riprogrammare per rispondere alle esigenze del discorso sociale. Nella scuola, nel mondo del lavoro, nella società in generale, la differenza, la non conformità, la creatività, ciò che rende ciascun soggetto unico, non solo non è incentivata, ma è spesso sanzionata, considerata un difetto da correggere se non rigettata.
A questo fa da contraltare la sempre maggiore difficoltà di molti soggetti ad affrontare le separazioni a cui la vita può confrontarli. Lo si constata soprattutto nei legami d’amore, rispetto ai quali le cronache sono sempre più piene di notizie di violenze e delitti commessi nelle coppie allorché uno dei partner decide di terminare la relazione, ovvero di non conformarsi più al modello ideale a cui l’altro l’aveva identificato.
Il miraggio dell’amore consiste proprio nel suppore che l’altro abbia ciò che mi manca, e che accende il mio desiderio. E le delusioni d’amore sono lì a mostrarci quanto questo miraggio sia illusorio. Lacan lo descrive in modo toccante nel Seminario VII: “ […] l’amore è quanto accade in quell’oggetto verso cui tendiamo la mano con il nostro desiderio e che nel momento in cui il nostro desiderio fa divampare il suo incendio ci fa apparire, per un istante, in risposta, un’altra mano che si tende verso di noi, come il suo desiderio”.[1]
Occorre non dimenticare che è stata la psicoanalisi post freudiana, dopo Freud, a promuovere l’idea di un’evoluzione maturativa che porterebbe all’amore genitale, adulto, reciproco nel senso dello scambio alla pari e ad indicare l’analisi come via regia per giungere a questa armonia nel legame, idea di cui si è infarcita molta psicologia e psicoterapia.
Ma Lacan ci mostra, e d’altra parte lo constatiamo nella clinica, che l’idea di armonia, di una condizione privilegiata in cui tutto andrebbe bene, in cui il legame sarebbe quello che ci vuole, è un’idea che attribuiamo sempre ad un altro. L’altro è, per il soggetto umano, colui che gode di ciò di cui sono privato, il che porta con sé un’aggressività strutturale: posso ammirare l’altro, desiderare di essere al suo posto e, al limite, tentare di strappargli l’oggetto che suppongo lui abbia e che a me manca. “Non è una gelosia ordinaria, scrive Lacan nel Seminario sull’Etica della psicoanalisi – è la gelosia che nasce in un soggetto nel suo rapporto con un altro, per il fatto che questo altro è ritenuto partecipare a una certa forma di godimento, di sovrabbondanza vitale, percepita dal soggetto come quel che non può lui stesso afferrare per mezzo di alcun moto affettivo, neppure il più elementare. Non è davvero singolare, strano, che un essere riconosca di invidiare nell’altro, e fino all’odio, sino al bisogno di distruggere, quel che non è capace di afferrare per nessuna via intuitiva?”. [2]
Ecco allora che ogni relazione d’amore porta con sé la separazione fin dalla sua origine. “Ti amo – scrive Lacan – ma poiché amo in te qualcosa al di là di te, ti mutilo”. Molte separazioni si consumano su questo punto di odio, laddove esso non sia incluso nella relazione, anzi sia precluso non solo soggettivamente, ma dal discorso sociale, come accade oggi.
Il lavoro analitico consente di esperire, al suo termine, che la separazione di cui si tratta non è tanto quella da un altro, bensì quella dall’oggetto, meglio, dalla forma che abbiamo dato all’oggetto o agli oggetti in cui abbiamo riposto l’illusione che fossero quelli che ci completerebbero.
La psicoanalisi, a rovescio del discorso contemporaneo, sa che è conveniente non solo al soggetto, ma anche alla forma che il disagio della civiltà può prendere, includere quel punto di odio, di separazione radicale del soggetto con se stesso e con l’altro, al cuore della relazione umana.
[1] J. Lacan, Il Seminario, libro VII, Il transfert, p. 196
[2] J. Lacan, Il Seminario, Libro VIII, L’etica della psicoanalisi, p. 301