Il titolo del Convegno riprende la tensione tra l’ Yad’lun dell’esistenza e la pluralità degli esseri del significante. Il suo testo di riferimento, oltre a dei passaggi dell’insegnamento di Lacan, è sicuramente, mi sembra, il corso di Jacques-Alain Miller L’Être et l’Un. La nostra Presidente, Paola Francesconi, mi ha invitato a dare il mio contributo al dibattito, partendo, per esempio, dal Seminario XX, Ancora, di cui mi sono occupato negli ultimi mesi. E’ il seminario in cui Lacan, dopo aver sviluppato la problematica dell’ Yad’lun nel Seminario XIX, …ou pire, la riprende nei primi due capitoli, facendo riferimento all’anno precedente, per poi dire, nel capitolo sesto, che sì, attraverso quell’ Yad’lun, egli scandisce “il primo passo” di ciò che “nel discorso di Freud si annuncia come l’Eros, definito quale fusione che di due fa uno, l’Eros che si ritiene tenda, per gradi, a ridurre a uno una moltitudine immensa” (p. 63). Insomma “Il C’è dell’Uno è da prendere cogliendo l’accento per cui dell’Uno c’è assolutamente da solo. E’ da qui che si afferra il nerbo di quello che bisogna pur chiamare con il nome con cui la cosa risuona nel corso dei secoli, e cioè l’amore” (p. 64). Tuttavia se l’amore copre il fatto che “non c’è rapporto sessuale”, nel Seminario XX Lacan vi dispiega il Godimento come un origami: così potrà arrivare a dire che “il godimento fallico è l’ostacolo per cui l’uomo non arriva a godere del corpo della donna, precisamente perché ciò di cui gode è il godimento dell’organo” (p. 8), e dire poi, inoltre, che c’è un godimento supplementare… Questo origami è quindi costruito e piegato ad arte, e Lacan ci infila dentro, come fondamento, la logica. Lasciamo per un altro momento lo svelamento di quel gioco di prestigio che permette a Lacan di passare dal tout al pas tout, passaggio che passa inavvertito al lettore francese o spagnolo ma non al lettore italiano o latino, foss’anche medioevale: omnis non può dare adito ad equivoci, per Tommaso, e non si confonde né con totus né con tota, come ho fatto notare nell’avvertenza alla fine del Seminario XX. Noterò, di sfuggita che il passo che deve aver fatto baluginare a Lacan di poter passare dall’ “ogni” al “tutto”, anzi al “non tutta” si trova in uno dei volumi dell’ Organon, per la precisione nel Peri hermeneias.
Ma prendiamo ora un altro punto. Punto in cui, facendo finta di niente, Lacan chiama in ballo Tommaso d’Aquino. (“Mi prostro a terra quando leggo san Tommaso. Perdio se è ben fatto!”, dice a p. 109). Dopo aver parlato dei mistici e del fatto che i suoi Scritti figurerebbero in bella posta accanto alle Poesie di Hadewijch von Antwerpen o leCanciones de Juan de la Cruz, Lacan termina dicendo: “Detto questo, naturalmente, sarete tutti convinti che io creda in Dio”. E continua, direi, gridando a pieni polmoni: “Credo al godimento della donna […]!” (p. 72). Due passi da mettere in serie con un terzo che si trova poco prima: “Oggi forse vi mostrerò piuttosto in che senso il buon vecchio Dio propriamente esiste. Il modo in cui esiste forse non piacerà a tutti, e in particolare non piacerà ai teologi, che sono, come ho detto da tempo, molto più tenaci di me nel fare a meno della sua esistenza. Sfortunatamente io non mi trovo affatto nella stessa posizione, poiché ho a che fare con l’Altro. – Fate attenzione ora alla frase seguente – Questo Altro, se non ce n’è che uno assolutamente solo, deve ben avere qualche rapporto con ciò che appare dell’altro sesso” (p. 65). E, dirà qualche pagina dopo, “perché non interpretare un volto dell’Altro, il volto Dio, come quello che è sostenuto dal godimento femminile?” (p. 72). Lasciamo per ora da parte la questione Dio: dai termini che ci dà Lacan notiamo che lascia intendere che è ben più complessa di quanto lui stesso dica. Per parafrasare una sua massima, che troverete a p. 72, dirò che è patente che non ne risultano tre Dio, o forse quattro Dio – Lacan dice due -, ma che non ne risulta neppure uno solo. La soluzione di questo enigma si trova nel fatto che, nel Seminario XX, se Lacan conferisce il posto dell’eccezione al Padre di Totem e tabù, sdoppia però il Dio dei filosofi: quello di Aristotele non è più riconducibile a quello di Einstein. Ma torniamo ai termini della questione che ci interessa: il volto Dio e il godimento femminile. Essi, mi sembra poter dire, sono iscritti in una striscia di Moebius.
Se è così, i termini sarebbero proprio quelli a proposito dei quali dibatte Tommaso d’Aquino nella Summa Theologica, IIa IIae, quaestio II, articulus II: Utrum convenienter distinguantur actus fidei ad hoc, quod est credere Deo, credere Deum, et credere in Deum, come ci ha ricordato François Leguil nell’ultima sua conferenza romana, visto che, sebbene il tramite fosse Yves Congar, la questione l’aveva interessato nel suo insegnamento di passe, ormai passata da tempo. Comunque Lacan lascia a Tommaso, nel suo schematico: Rispondeo dicendum quod quanto riguarda il credere Deum: in questo caso l’oggetto della credenza è l’oggetto materiale che concerne l’intelletto. Diciamocelo pure: è una pura banalità, sebbene rivestita, a volte, da formule matematiche, complicatissime, come sono quelli di Goedel. Poi c’è il credere in Deum: puro atto di fede in cui l’intelletto è mosso dalla volontà. Non a caso il Symbolun nicenum inizia con un “Credo in unum Deum […]” eccetera. Cosa che non rifugge affatto però dal credo quia absurdum. Ma è il terzo credo quello che interessa Lacan: “Credo al godimento della donna”. Il quale, tradotto nel linguaggio di Tommaso, si dice: credere a Dio. Anche in questo caso, solo l’intelletto è interessato e concerne la ragione formale dell’oggetto, quod est sicut medium, propter quod tali credibili assentitur, ossia tale ragione formale dell’oggetto costituisce come il mezzo, o il motivo, grazie al quale si dice di sì a quella tal cosa a cui si crede.
Conclusione: se si arriva a dire: “Credo in Dio” è perché c’è un motivo il quale si enuncia nei termini seguenti: “Credo al godimento della donna”.
Gustoso Lacan!