Una questione di vita e di morte
Giuseppe Salzillo
In quell’elemento residuale, atomo essenziale che cade come resto sintomatico di un percorso analitico, vita e morte si intrecciano, si « impastano », per usare un termine freudiano. Si vive la morte. Si muore la vita.
La parola greca « bios » può essere letta « biòs » e in questo caso significa « arco », scritta « bìos » invece significa « vita ». È la dialettica del tiro con l’arco. È la logica della pulsione. « All’arco è dato il nome della vita, e la sua opera è la morte » dice meravigliosamente Lacan nel Seminario XI.
Cicli di identificazioni, il passaggio da una all’altra, oscillamenti tra la vita e la morte, tra una fine e una rinascita. Le identificazioni divengono cadaveri viventi in uniforme, colonnelli zombie nel deserto dei paradigmi: « Così devi essere, così non devi essere ». Se da un lato le molteplici identificazioni leniscono temporaneamente quell’angoscia, effetto di quel reale che non trova pace nel simbolico, l’analisi, dal canto suo è impietosa, non fa sconti a nessuno.
Quel nocciolo non analizzabile si porta dentro un segreto. È qualcosa del godimento, del godimento che trova il suo abitus nel sintomo. Il godimento è né questo néquello, è né così né in altro modo. La significazione salta ed emerge la differenza assoluta tra ciò che può essere detto, il dire e ciò che si mostra. Il « conosci te stesso » diventa un vuoto ritornello che si affievolisce nel silenzio del proprio corpo, il non-luogo senza domanda, senza risposta. La verità, dice Lacan, « diventa l’affettuosa sorellina dell’impotenza », l’impossibilità di significare il proprio godimento.
È questo un luogo « finale », di fine analisi, ma allo stesso modo richiama quel tempo « iniziale » in cui la Cosa fa parola, fait mot, in quanto indicibile condizione prima, origine di tutta la catena significante.
L’Altro non esiste. Esiste l’uno da solo. È questa la particolarità della posizione analitica. È l’uno da solo, chiarito di ciò che fa star male, chiarito sul senso del proprio sintomo. È l’uno che non si lascia più ingannare dagli artifici dell’inconscio. Inconscio che continua ad esserci ma senza più quel senso che fa star male.
Il re è nudo. Il bambino che urla “non ha niente addosso!” è il processo analitico. Ciò che resta è il reale nudo.
L’analisi ti accompagna attraverso l’insistenza assillante dei pensieri che vanno e vengono, dei pensieri che scacciamo via e di quelli che ritornano per schiacciarci nuovamente. Infondo l’operazione di decifrazione dell’inconscio è sempre un operazione “mentale” e per questo menzognera. Pensieri che pensano altri pensieri. Verità e menzogna si profondono.
Ad un certo punto però, nell’analisi, il desiderio si sgonfia e con lui anche quel significante che chiamiamo « fallo ». Se il desiderio è un sembiante della libido, aldilà dello schermo fantasmatico della mente si intravede ciò che non mente: il godimento, ciò che della libido è reale, il corpo che palpita sotto le maschere identitarie.
Seppur l’analisi finisce, in qualche modo, per l’analisi non ci sarà mai una fine assoluta. Il corpo gode in silenzio. È con questo corpo che noi ci ritroviamo a parlare.