« Rien n’est plus vacillant, dans le champ où nous sommes, que le concept de guérison. » Jacques Lacan, Sém. X, p. 70
Éditorial
PIPOL 5 et l’Europe psychanalytique Les deux premiers textes de ce numéro de PIPOL NEWS traitent l’intervention politique et administrative de l’État dans la santé mentale de ses citoyens. Thierry Van de Wijngaert nous en montre les paradoxes. Marco Focchi en extrait la logique : jadis, la santé était définie comme « absence de maladie ». Or, l’absence ne s’évalue pas, et ainsi à l’ère de la postmodernité, la santé est devenue présence du bonheur. C’est en tant que présence positivée qu’elle peut être objectivée, évaluée, administrée et gérée à des fins économiques. Le troisième texte de Daniel Roy est un commentaire d’un documentaire émouvant sous le titre « L’enfance sous contrôle ». Ce commentaire attire notre attention à la jouissance insue de l’évaluateur de l’enfant, telle qu’elle se révèle dans ce film. Janusz Kotara, dans le dernier texte incluant un cas clinique, extrait chez Lacan le mot qui nous convient pour dire notre devoir clinique. Il s’agit « d’améliorer la position du sujet » par rapport au réel, ce qui est différent de « guérir ». Ainsi, quatre collègues européens contribuent à la préparation du débat qui nous attend lors de PIPOL 5 à Bruxelles. Un an, un mois et 15 jours nous séparent de cet événement, mais il se construit déjà : le projet d’affiche est bien avancé, PIPOL NEWS est mis en place, les salles sont réservées à l’élégant SQUARE (l’ancien Palais des Congrès de Bruxelles tout récemment rénové). Nous cogitons actuellement sur les festivités. Un cocktail d’accueil pour les congressistes est prévu le vendredi 1 juillet 2011 sous le titre “Soirée cravate”. Une « boum » surnommée “Soirée T-shirt”, aura lieu le samedi 2 juillet après les simultanées et avant les plénières du dimanche. PIPOL 5 participera à la restructuration de la FEEP qui a été annoncée par Vicente Palomera lors de la dernière AG de l’AMP. Ce sera le Congrès de fondation de la future « Euro-Fédération de Psychanalyse ». Nous sommes en pleine formalisation des deux annuaires de l’Euro-Fédération : « L’annuaire des régions » et « L’annuaire des adhérents ». Ces annuaires devront représenter la force de rayonnement de la psychanalyse d’orientation lacanienne en Europe. Ils nous serviront de carte de visite auprès des instances européennes (notamment la Commission européenne à Bruxelles) afin d’y défendre la psychanalyse. Par ailleurs, ils donneront consistance à la grande communauté de travail que nous formons déjà autour des quatre Écoles de l’AMP en Europe. Ces annuaires ne constitueront en aucun cas une garantie de la formation ou de la pratique de l’adhérent qui y est inscrit. Un mot sur les traductions. Nous vous proposons dans la première page de PIPOL NEWS de traduire les textes à l’aide d’un moteur de traduction. Ces traductions sont sans doute mauvaises, mais si nous voulons donner une consistance à « l’Europe psychanalytique », mieux vaut ne pas être trop sourcilleux sur ce point. La preuve : je ne connais pas l’Italien. J’ai fait traduire le texte de Marco Focchi par la machine. Ensuite je l’ai corrigé moi-même, là où la traduction m’a paru incohérente. Cela m’a pris une heure, mais j’ai voulu lire le texte de Marco. Ça a marché. Cette traduction n’est pas diffusable sur PIPOL NEWS, mais les lecteurs qui souhaitent lire la version française ainsi traduite peuvent m’écrire un mail pour me la demander ([email protected]). Ils verront qu’on comprend très bien ce que Marco Focchi veut dire. Cette approche pragmatique nous aidera à créer la conversation européenne que nous souhaitons. Gil Caroz La Salute mentale come totalizzazione del positivo Marco Focchi, président de la SLP Il problema della salute mentale va inquadrato nella definizione di salute data dall’OMS come espressione di una totalizzazione del positivo, che espelle qualsiasi forma di negatività – sia essa mancanza, desiderio, fallo – indispensabile per la definizione dei concetti psicoanalitici. Cosi recita per esempio la Carta di Ottawa per la promozione della salute, redatta a termine del Congresso internazionale tenuto in Canada dall’OMS dal 7 al 21 novembre 1986: “Per promozione della salute si intende il processo che consente alla gente di esercitare un maggiore controllo sulla propria salute e di migliorarla. Per conseguire uno stato di completo benessere fisico, mentale e sociale, l’individuo o il gruppo devono essere in grado di identificare e realizzare le proprie aspirazioni, di soddisfare i propri bisogni, di modificare l’ambiente o di adattarvisi. La salute vista, dunque, come risorsa di vita quotidiana, non come obiettivo di vita: un concetto positivo, che insiste sulle risorse sociali e personali, oltre che sulle capacità fisiche. Di conseguenza, la promozione della salute non è responsabilità esclusiva del settore sanitario, ma supera anche la mera proposta di modelli di vita più sani, per aspirare al benessere”. Tale definizione sta alla base di un documento denominato “Strategia della salute per tutti” e adottato dall’Assemblea Mondiale della Sanità nel 1998, articolato in ventuno obiettivi che dovrebbero essere perseguiti a livello internazionale, nazionale e locale per realizzare una salute che sia il prerequisito di una vita produttiva sul piano sociale ed economico. Salta all’occhio che, così inquadrata, la salute risulta essere solo un mezzo subordinato alla realizzazione di fini che la comunque la trascendono. Non è tuttavia certo per sminuirla che l’OMS pensa la salute come mezzo piuttosto che come fine in sé. Il problema è legato piuttosto alla volontà di proporne una definizione positiva, di girare pagina rispetto alla concezione a cui la medicina ha sempre dovuto, malgrado tutto, limitarsi della salute come assenza di malattia. E’ tuttavia proprio la definizione positiva il punto della questione. Essa indica infatti in modo palese il passaggio di mano del potere decisionale dalla classe medica alla classe amministrativa, giacché non è possibile amministrare e gestire burocraticamente un’assenza. Il trasferimento della salute dalla sfera privata a quella pubblica si era già avviato durante la Rivoluzione Francese, e il mondo postmoderno, attraverso l’OMS, perfeziona in fondo il passaggio facendo della classe medica lo strumento di ciò che ha come fine ultimo la produzione. La medicina diventa allora ancella dell’economia, divinità suprema questa, nell’Olimpo della globalizzazione. La chiave di volta che permette di subordinare la salute all’economia è la sua definizione positiva, che ne fa una pienezza, e che ne consente la reificazione attraverso cui può cadere nelle reti della contabilità amministrativa. Quando abbiamo un obiettivo chiaramente identificato, possiamo calcolare quanto occorre per raggiungerlo. Da qui si aprono le porte ai Diagnosis Related Groups (DRG), ovvero categorie di pazienti che presentano caratteristiche di omogeneità e che richiedono volumi equivalenti di risorse ospedaliere. E’ il passo che ci fa entrare nella medicina postmoderna. Il modello di riferimento per il sistema di pagamento basato sui DRG nasce negli Stati Uniti all’inizio degli anni Ottanta. In esso si tratta di definire la tariffa che deve essere corrisposta per ogni gruppo di pazienti omogeneo. Il valore della tariffa è influenzato da due fattori: il costo di un paziente ricoverato in un ospedale medio, cioè non universitario o di ricerca, e il costo relativo del gruppo rispetto al costo medio per paziente. L’applicazione di questi due fattori rappresenta il costo medio complessivo dell’assistenza ospedaliera per tutti i ricoveri attribuiti a un determinato gruppo, e comprende il costo di tutti i sevizi ricevuti in degenza, includendo servizi alberghieri, esami di laboratorio, di radiologia, ricoveri in reparti di terapia intensiva, assistenza infermieristica e così via. L’introduzione di questo modello naturalmente ha prodotto degli effetti nella politica ospedaliera, che ha acquisito la tendenza a moltiplicare i ricoveri e a erogare le prestazioni più remunerative per incrementare le entrate, a contenere i costi di produzione al di sotto delle tariffe stabilite o a dimettere pazienti non ancora guariti per riuscire a rispettare i parametri fissati dai DRG. Il problema non è però solo la politica ospedaliera: è l’intero orientamento del pensiero sulla salute che viene a ricentrarsi in modo diverso: con la modernità, dopo che Cartesio descrive il corpo umano come un meccanismo d’orologeria, si crea una distanza tra il male del paziente e lo sguardo del medico che rende possibile la tassonomia delle malattie. Nello stesso modo in cui si classificavano gli animali e le piante, il medico tassonomista poteva individuare le malattie e raccoglierle in categorie. Al centro dell’attenzione non c’era più l’uomo malato ma l’oggetto malattia. Nel mondo postmoderno il sistema di classificazione non riguarda più le malattie ma gruppi omogenei di pazienti secondo una logica di organizzazione legata alla distribuzione dei mezzi finanziari. Al centro dell’attenzione non c’è più l’oggetto malattia, ma i suoi costi sociali. Quando vogliamo rintracciare l’origine della definizione positiva di salute, che permette di farne oggetto di calcolo amministrativo, dobbiamo risalire alle premesse che tale definizione ha nella cultura positivista del diciannovesimo secolo: da essa proviene l’aspirazione a fondare la conoscenza sui fatti e a derivare la certezza esclusivamente dall’osservazione propria della scienze della natura. In essa troviamo la valorizzazione della positività del reale in opposizione all’illusorietà del chimerico, e ad essa appartiene la spinta a trasformare la filosofia in scienza dei fatti concreti. Auguste Comte è il gigante che ha sistematizzato queste aspirazioni dando l’abbrivio a quel che è diventato oggi il monopolio della verità da parte della scienza. Nulla è più accreditato se non passa attraverso il vaglio valutativo della metodologia scientifica, fonte ultima di una certezza che supplisce l’autorità entrata in crisi nel mondo moderno dopo Lutero e con l’Illuminismo. Questionnement de la santé mentale en Belgique et en Europe Thierry Van de Wijngaert, ACF-Belgique La santé mentale n’apparaît jamais comme concept controversé dans les textes officiels. Dans les textes de fédérations et autres associations étant partie prenante de ce vaste secteur, on ne voit rien allant dans ce sens non plus. Ainsi, la charte de la « Ligue Bruxelloise Francophone pour la Santé Mentale » la définit comme suit : « la santé mentale d’une personne ou d’un groupe ne se réduit pas à l’absence de troubles psychiatriques, de souffrances psychiques ou de difficultés psychosociales. Elle touche plus fondamentalement à une qualité de vie personnelle, relationnelle et sociale, propre à chaque individu et à son environnement. Cette conception amène à considérer l’usager du service dans sa globalité : il est tenu compte des facteurs psychiques, biologiques, culturels, socio-économiques qui déterminent ses difficultés. Cette prise en charge globale s’adresse au patient considéré comme une personne, avec laquelle se crée un dialogue original, au travers d’une rencontre spécifique où chacun est partenaire de la relation et où les choix de la personne sont au cœur du processus de prise en charge. Cette attitude constitue l’éthique propre à l’intervention des équipes membres de la Ligue »[1]. Ça laisse songeur : balayer du revers de la main la souffrance et les difficultés pour mettre à l’avant-scène la qualité de vie… Pourquoi pas le bonheur ? Mais il y a plus inquiétant. Ainsi, « Santé Mentale Europe », dans sa structure, ressemble à l’association mondiale de psychothérapies évoquée par Jacques Alain Miller lors d’une réunion de Pipol V en janvier 2010. SME fait un lobbying important auprès des institutions européennes sans pourtant représenter dans les faits beaucoup de membres que ce soient des individus et des institutions.[2] Leur définition de la santé mentale est moins angélique et présente plus clairement comme indissociables l’individu et la collectivité en insistant sur la responsabilité du premier : « La santé mentale est une composante essentielle de la santé et du bien-être de chaque citoyen. En tant que telle, elle constitue une partie essentielle des communautés. Une bonne santé mentale est un des droits fondamentaux de l’homme. Les facteurs qui sont défavorables à une bonne santé mentale représentent une grande menace pour la santé économique, sociale et publique dans le monde entier. » Cherchant d’où venait le terme même de « santé mentale », il me semble qu’on peut affirmer que ce n’est jamais que le relooking de ce qui s’appelait jadis « l’hygiène mentale », prophylaxie des maladies par information, éducation, prévention qui s’est développée au début du 20e siècle.[3] Je n’ai pas encore repéré précisément le moment de passage d’un terme à l’autre. Si l’on prend en compte ce point de départ, les « bonnes pratiques » n’apparaissent pas comme une émergence récente liée au lobbying des TCC exigeant de réaliser des études quantitatives comparatives de résultats de différentes pratiques, mais comme la simple réactualisation de ce qui, en France, a son origine en 1920 par la création de la « Ligue d’hygiène et de prophylaxie mentales ».[4] Tout est déjà là : le scientisme, le contrôle des populations, la menace pour l’ordre public, le dépistage précoce, le traitement par l’apprentissage. Ce qui semble plus récent, c’est d’insister sur cette étrange articulation entre le « droit au bien-être » et l’impact sur la productivité. En Belgique, la préoccupation des coûts pour la sécurité sociale est évoquée régulièrement dès lors que le budget de cette dernière apparaît à certains comme trop important au regard des finances publiques. En Belgique, l’actualité est tout à fait propice à notre thématique puisque vient d’être lancée la nouvelle réforme des soins en santé mentale. L’échec annoncé de l’implémentation de réseaux sous la forme de « projets thérapeutiques » est le résultat d’une vague de critiques sans précédent des différents représentants des fédérations et autres plateformes de concertation. Le ministère de la Santé publique s’y prend cette fois-ci en organisant une large diffusion des nouvelles orientations qu’il envisage. Plusieurs documents circulent, l’attachée de cabinet multiplie les rencontres. Ce qui est le plus marquant, ce sont encore les bonnes intentions. Certaines étaient déjà présentes dès la réforme de 1990. Ainsi, on parlait beaucoup de soins centrés sur les besoins des usagers. Aujourd’hui, on s’attache à impliquer davantage le patient. Est-ce faire place au sujet ? Non. Le signifiant besoin est un de ceux qui pourraient être un point pour arrimer notre questionnement, tout comme l’idée d’impliquer le patient et celle de soins taillés sur mesure pour le patient.[5] Deux des références pour penser la réforme, sont les modèles dits de Birmingham et de Lille. Dans la gamme des approches cogitivo comportementales, on insiste ici sur le traitement par lien assertif de type « can do ». Obama disait « Yes, we can », dans la même perspective de l’« empowerment », nous avons le « Yes, you can ». En Bruxellois, ça donne : « Tu peux le faire! » C’est la persuasion par la pensée positive qui fait chorus avec l’OMS qui dès 1986 définissait la promotion de la santé comme « processus qui confère aux populations les moyens d’assurer un plus grand contrôle sur leur propre santé et d’améliorer celle-ci ». C’est encore et toujours le refus de penser ce qui échappe au sujet et la complexité du lien thérapeutique qui sont au cœur de leur égarement à penser l’homme comme être de besoins objectivables. Dans ce sens, la revue Neurone,[6] que reçoivent tous les psychiatres et médecins, a publié un article sur l’empowerment où j’ai trouvé quelque chose que je n’avais jamais entendu. L’auteur part de l’impasse des dispositifs pour les malades mentaux pauvres, impasse qui serait due au fait que les praticiens pensent leurs interventions à partir de la demande. Les pauvres ne demandent rien et encore moins de parler, apprend-on. Il s’agit en conséquence de promouvoir « l’ingérence attentionnée ». Bêtise, cynisme ou férocité ? « L’entrée de tout un monde dans la voie de la ségrégation » Jacques Lacan, Autres écrits, p. 369 Daniel Roy, ECF, NLS Le 30 avril 2010, à 22h05, la chaîne de télévision Arte diffusait un documentaire réalisé par Marie-Pierre Jaury et intitulé « L’enfance sous contrôle ». Ce film constitue à nos yeux un document inestimable sur l’extension de l’utilisation biaisée de la science pour mettre les enfants sous contrôle, au moins dans ce qu’il était convenu d’appeler le monde occidental, sans garantie aucune concernant l’oriental. À proprement parler, le film ne nous « apprend » rien, mais son impact est considérable de mettre en série, à propos de la catégorie du « trouble des conduites », les interviews de psychologues, psychiatres et chercheurs français, allemands, anglais, québécois, américains, belges, qui prêtent leurs visages et leurs voix à des propos d’une violence inouïe. Les enfants naissent avec une propension à l’agression physique, leur amygdale secrète moins de cortisol, ils passeront ainsi de l’incendie de la poubelle de la classe au braquage de banque, un dépistage précoce grâce au test du Dominiqque Interactif, aux IRM, aux jeux falsifiés où l’enfant perd à tous les coups, va permettre de prescrire une pharmacopée avant l’adolescence pour éviter la délinquance et de stopper ces criminels qui commettent des milliers de crimes par an. Nous comprenons bien, saine vertu pédagogique, grâce à la réalisatrice qui nous accompagne dans cet « océan de fausse science » et aux propos de Roland Gori et de Christopher Lane, que l’on veut faire du comportement un élément objectif quantifiable et utiliser la science (?) comme mode de contrôle de l’individu. Mais pourtant une question demeure : pourquoi tant de haine ? Il est utile alors pour nous orienter de prélever quelques détails qui semblent échapper aux propos des uns et des autres, des scories du film en quelque sorte. Qui dira la jouissance indicible qui s’affiche sur le visage de cette ravissante jeune mère à laquelle le testeur, suivant les items de la Child Behavior Check List , demande si son fils « torture des animaux domestiques », et qui répond par un cri du cœur « il adore ça ! » ? Qui dira la contamination qui atteint le psychologue québécois spécialiste du Dominique Interactif quand un enfant lui demande à quoi sert ce test et qui se lance dans la métaphore du « casse-tête » qu’il faut reconstruire élément après élément pour avoir « une bonne image de toi », propos qui n’a pas l’air de rassurer l’enfant ? Qui dira la trouvaille phantastique du chercheur à qui s’offre les moyens de découvrir « le cerveau qui ne respecte pas les règles de la société » ? Qui dira la satisfaction sans nom du savant qui peut enfin « falsifier » le test, « truquer » le jeu, et, sans vergogne, dérober à l’enfant sa parole ? Nous nous demandons pourquoi et comment une telle pulsion de mort trouve aujourd’hui à se lier avec la science, à se répandre ainsi dans les interstices de nos sociétés, pour offrir leurs enfants en sacrifice à des dieux obscurs et produire des ségrégations de plus en plus redoutables. Nous nous demandons comment résister à la prolifération de cette nouvelle barbarie. Quelle Guérison ? Janusz Kotara, NLS Le champ de la santé mentale s’organise et s’évalue, entre autres, à partir du terme de guérison. La notion de guérison, telle qu’elle apparaît chez Freud, nous renvoie aux débuts de la psychanalyse. Freud n’hésitait pas à prendre une position éthique concernant sa nouvelle pratique affirmant qu’elle était orientée par un souci de guérison. Néanmoins, dès le début il cherchait à ce qu’elle ne devienne pas un « art thérapeutique » parmi d’autres. La logique de sa théorisation organise le domaine de l’inconscient dont il examinait les phénomènes dans l’expérience clinique et dans la vie quotidienne. Ainsi, dans L’interprétation des rêves, guérir se référait à la réduction de la souffrance incluse dans le symptôme par son déchiffrement et par l’accès aux vœux inconscients. Mais l’impossibilité de guérir complètement le symptôme le conduisit plus tard, dans « Conseils aux médecins sur le traitement analytique », à nous mettre en garde contre la furor sanandi– la passion de guérir – qui, faute de reconnaître le composant de jouissance du sujet dans le symptôme, ne reconnait pas la limite à partir de laquelle la guérison devient inopérante. Dans l’enseignement de Lacan, la question de la guérison se situe dans la psychanalyse appliquée à la thérapeutique. Nous touchons là à la problématique des effets que son application produit sur le symptôme et à l’identification du sujet comme source de sa souffrance. Dans le Séminaire L’angoisse Lacan écrit : « Je me souviens d’avoir provoqué l’indignation de cette sorte de confrères qui savent à l’occasion se remparder derrière je ne sais quelle enflure de bons sentiments destinés à rassurer je ne sais qui, en disant que, dans l’analyse, la guérison venait par surcroit. On y a vu je ne sais quel dédain de celui dont nous avons la charge et qui souffre […]. Il est bien certain que notre justification comme notre devoir est d’améliorer la position du sujet. Mais je prétends que rien n’est plus vacillant, dans le champ où nous sommes, que le concept de guérison. »[7] L’articulation des termes guérison et amélioration de la position du sujet, que nous trouvons dans ce paragraphe m’a servi de point de référence dans ce cas rencontré à l’hôpital. La rencontre N., un garçon de 8 ans semble être dans un désordre total. Il court sans cesse, pousse ou frappe les enfants et le personnel. Il ne participe aux jeux organisés. Il jette ou abîme les objets et les jouets. Il boit d’immenses quantités de boisson qu’il prend aux autres. Il se salit, porte une couche, vomit. Souvent, il reste couché par terre, le regard vide, sans réaction à ce qui se passe autour de lui. Il ne prononce qu’un seul mot incompréhensible, cicinka avec une voix bizarre, babillarde, ou bien répète comme un perroquet des énoncés des autres. Dans des moments de crise, il hurle, se mord les mains et les avant-bras, et se frappe sur le ventre. Quelle guérison dans le travail avec un enfant autiste ? Et par quoi commencer ? Premièrement, respecter « la position subjective », dont parle Lacan, en tant que « la position autiste » est une réponse du sujet au réel d’une présence menaçante de l’Autre, et non pas un ensemble des déficits dus aux troubles de développement du système nerveux. Deuxièmement, réguler sa propre présence. Les tentatives d’entrer en contact avec le sujet autiste, – lui apprendre à parler, jouer avec lui, lui poser un interdit -, risquent de le mettre en situation d’angoisse. De là, la nécessité de cette « autorégulation » de la part des différentes figures de la présence de l’Autre : éducateur, médecin, thérapeute… La formule du travail Ces deux indications orientent le travail avec N. Avec deux ou trois personnes de l’équipe, nous organisons des « mini-ateliers » accessibles à tous les enfants. Ainsi, nous construisons un Parc d’Astérix avec des cubes Lego, nous jouons au Scrabble, nous écoutons une fable et nous l’illustrons par des dessins. N. n’est pas obligé, ni même invité à participer à ces ateliers. Après quelques jours, il décide de nous joindre. À partir de ce moment là, il y vient régulièrement et y participe à sa façon. Par exemple, quand nous lisons une histoire sur des cigognes et nous les dessinons, N. insiste : « des hirondelles, des hirondelles ! » Puis, en montrant deux cigognes sur le dessin, il dit : « maman-cigogne, papa-cigogne ». Une autre fois, lors d’une construction de cubes Lego, N. jette tout à coup des cubes par terre, puis, en montrant du doigt la psychologue qui ramasse les cubes, il dit avec sa voix bizarre : « Range ce désordre ! Range ce désordre ! » Je demande : « Qui dit cela ? » N. répond : « Je n’ai rien fait de mal ! Je n’ai rien fait de mal ! » Ensuite, il crie en s’adressant au vide : « Maman ! Papa ! Où êtes-vous ? » Je me pose la question de savoir à qui parle le sujet autiste. Les mots « maman » « papa » sont-ils accidentels ou bien sont-ils les premiers éléments du discours du sujet ? « Pourquoi quand il criait : “ Range ce désordre ! ” j’ai ressenti une terrible angoisse ? », demande la psychologue. Ces questions sont le signe d’une authentique expérience clinique et l’écho de la question que le sujet met en jeu. Les repas : l’acte du thérapeute Pendant les repas, N. n’arrive pas à conduire la cuiller vers sa bouche, le regard vide, il se barbouille le visage avec la nourriture. Le corps n’est pas une évidence pour lui. Lorsque je m’assieds en face de lui et que je commence à manger en disant ce que je mange et que c’est bon, il se met à manger en me regardant et en imitant mes mouvements. À un moment donné, il fait passer la cuillère de sa main droite à sa main gauche pour se mettre dans une position en miroir à la mienne. Se faire un corps par l’habillage de l’Autre Peu après, j’apprends que N. se couvre à plusieurs reprises d’un vêtement d’adulte : il met le tablier d’un membre de l’équipe, le blouson d’un de ses parents, la veste de l’infirmier… On me demande d’intervenir. Je parle avec le personnel de l’utilité de cette opération. Pendant les semaines suivantes, N. la répétera. Habillé de mon blouson, de la veste de psychologue ou d’infirmier, il va se regarder dans le miroir. Pendant ce temps-là, il fait des mines bizarres, il se caresse la tête, prononce des phrases incompréhensibles. Nous l’accompagnons dans cette « activité nécessaire » en nommant ce que nous voyons dans le miroir. Un jour, lorsqu’il est devant le miroir, la psychologue le dessine en nommant les parties de son corps. Il constate alors : « Je suis un petit garçon, je suis un petit garçon, je suis un petit garçon ». Ces éléments illustrent un travail basé sur l’invention du sujet qui consiste à créer une figure unifiée de son corps en s’appuyant sur une image de l’Autre. Ceci permet à N. d’élaborer un nouveau mode de lien social. Il peut par exemple dire à une infirmière lors d’un début de soirée : « Marguerite, nous buvons du thé ». Ensuite, il boit du thé, imitant l’autre en miroir. Il passe son temps avec le personnel qui accompagne ses activités. Il participe à sa façon à leurs conversations. Malgré des crises qui apparaissent encore de temps à autre, sa situation subjective s’améliore. N. participe à la plupart des jeux avec le thérapeute ou avec d’autres enfants, aux mises en scène avec des peluches, aux promenades. Pour les parents, « ce n’est plus le même enfant ». À la fin de son hospitalisation, N. fréquente une petite classe d’une école près de l’hôpital. Quelques mois après, je reçois une note de la part de la psychologue, après son entretien avec les parents de N. : celui-ci fréquente régulièrement une école normale et il a un copain. Quelle guérison ? Je laisse cette question ouverte à notre réflexion.