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Editoriale
Classificazioni/singolarità
Marco Focchi
Già da un po’ di anni è in preparazione la nuova edizione del DSM, il Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders, la cui V° revisione è prevista per il 2012. Ma i lavori sono cominciati dal 1999 con una Research Planning Conference che ha convocato esperti della famiglia e della gemellarità, genetisti molecolari, studiosi di neuroscienze, di scienze cognitive e comportamentali e di varie forme di disabilità.
Quel che questo composito cartello di studiosi definirà come disturbo, indicandolo con dei codici diagnostici, sarà riconosciuto e rimborsato dalle compagnie d’assicurazione.
L’attuale edizione del manuale, la IV°, classifica 283 disturbi, triplicando il numero incluso nella prima edizione, quella pubblicata nel 1952, quando l’American Psychiatric Association era fortemente influenzata dal pensiero psicoanalitico.
Cosa ancora si potrà includere sotto l’etichetta di disturbo mentale, oltre allo shopping compulsivo, al disturbo da comportamento dirompente, all’ortoressia (l’ossessione per il consumo di cibi sani) di cui si sta ancora discutendo?
Si assiste a un’ipertrofia della classificazione diagnostica come annullamento della singolarità che la psicoanalisi ha sempre messo al centro della propria pratica.
Prima di ricadere sotto una categoria, il sintomo – ma il DSM parla ormai di “disturbo” – è un segno singolare che può certamente “disturbare” il soggetto, ma che soprattutto disturba la norma, la conformità, l’omogeizzazione necessaria al buon funzionamento amministrativo e al controllo della popolazione.
Se la prospettiva è il controllo, il sintomo disturba, e l’obiettivo può essere solo quella di sopprimerlo, possibilmente per via farmacologica.
Ma la prospettiva amministrativa e soppressiva non è la sola possibile, e non è certamente quella della psicoanalisi. Spogliando il sintomo della sua cappa di sofferenza la psicoanalisi ne fa piuttosto emergere la cosa preziosa, unica, insostituibile e inclassificabile, restituendolo alla possibilità di un buon uso. E qualunque sia l’uso che ne farà il soggetto, non sarà mai quello repressivo in cui lo incanala uno scientismo riduttivo che tratta la materia umana come un oggetto il cui solo scopo è di essere funzionale.
Quel che questo composito cartello di studiosi definirà come disturbo, indicandolo con dei codici diagnostici, sarà riconosciuto e rimborsato dalle compagnie d’assicurazione.
L’attuale edizione del manuale, la IV°, classifica 283 disturbi, triplicando il numero incluso nella prima edizione, quella pubblicata nel 1952, quando l’American Psychiatric Association era fortemente influenzata dal pensiero psicoanalitico.
Cosa ancora si potrà includere sotto l’etichetta di disturbo mentale, oltre allo shopping compulsivo, al disturbo da comportamento dirompente, all’ortoressia (l’ossessione per il consumo di cibi sani) di cui si sta ancora discutendo?
Si assiste a un’ipertrofia della classificazione diagnostica come annullamento della singolarità che la psicoanalisi ha sempre messo al centro della propria pratica.
Prima di ricadere sotto una categoria, il sintomo – ma il DSM parla ormai di “disturbo” – è un segno singolare che può certamente “disturbare” il soggetto, ma che soprattutto disturba la norma, la conformità, l’omogeizzazione necessaria al buon funzionamento amministrativo e al controllo della popolazione.
Se la prospettiva è il controllo, il sintomo disturba, e l’obiettivo può essere solo quella di sopprimerlo, possibilmente per via farmacologica.
Ma la prospettiva amministrativa e soppressiva non è la sola possibile, e non è certamente quella della psicoanalisi. Spogliando il sintomo della sua cappa di sofferenza la psicoanalisi ne fa piuttosto emergere la cosa preziosa, unica, insostituibile e inclassificabile, restituendolo alla possibilità di un buon uso. E qualunque sia l’uso che ne farà il soggetto, non sarà mai quello repressivo in cui lo incanala uno scientismo riduttivo che tratta la materia umana come un oggetto il cui solo scopo è di essere funzionale.